mercoledì 28 gennaio 2009
Risotto di anguilla
Siamo entro una raccolta dedicata ai risi: Risotti. Di tutto un po', Risotti di pesce, Tielle, timballi, sartù, gratin, Questo e quello, Neri, rossi, integrali, Esotici: pilaf, pilav, pilau, polow, pulaka. Medio oriente, Asia Centrale, Esotici; i dorati risi persiani, tah-digh, Esotici. India, Esotici. Pilau dell'Africa sub shariana.
Da Artemisia
Nel menu di Dicembre 2005. Ultimo dell'anno a Venezia.
Fate del brodo di anguilla
Mettere a bollire dell’acqua (calcolate pressappoco un litro e 300ml di brodo per 500g di riso) con gambi di prezzemolo, chicchi di pepe nero, cipollotti a rondelle, sale.
Quando bolle buttarci dentro l’anguilla e lasciarla sobbollire per 20’.
Filtrare il brodo: cavare fuori cipollotti e anguilla, spellarla, spinarla, ricavarne polpine.
Cuocere il riso
Fate un soffritto di olio d'oliva e scalogno.
Aggiungete del riso da risotto, fatelo leggermente tostare nel grasso.
Aggiungete un goccio di vino bianco secco, sfumatelo.
Aggiungete poco a poco il brodo caldo, mescolando.
A pochi minuti dalla fine aggiungete le polpine di anguilla e i cipollotti.
Fuori dal fuoco aggiungete una noce di burro e una manciata di parmigiano grattugiato, mescolate.
Aggiungete del pepe nero appena macinato.
Se il riso non è abbastanza all'onda, aggiungete un po' di brodo.
Versate nei piatti.
martedì 27 gennaio 2009
Palline di ricotta in brodo
Siamo in Minestre e minestroni, in particolare Minestre e minestroni. Carne.
Da Garia.
Impastare 100g di ricotta di pecora (o mucca) che avete fatto scolare per un'ora nello chinois, con 1 uovo, 50g di mollica di pane ammollata e molto ben strizzata, un cucchiaio pecorino (o parmigiano), un pizzico di sale e uno di pepe bianco.
Fare con l'impasto polpettine di circa 2cm 1/2 di diametro e sistemarle in un vassoio.
Spolverarle di farina e metterle in frigo almeno per una mezz'ora a rassodare.
Al momento di portare il brodo in tavola immergervi le polpettine e spegnere il fuoco appena salgono a galla.
Servire in ciotola, calcolando 5-6 polpettine a persona.
Versione nei piatti norvegesi bianchi e blu
300g di ricotta di pecora ben scolata (400 prima che scolasse), 50g di parmigiano, due uova, 100g di pane scuro raffermo e sbriciolatissimo, un pizzico di cannella, pepe nero, brodo di gallina.
46 polpettine circa.
Versione nelle ciotole bianche e blu
Mescolo il brodo caldo, fuori dal fuoco, con una manciata di spinaci bolliti, strizzati e frullati finemente. La prossima non mescolare ma frullare, per maggiore omogeneità. Le palline sono di 20g: un po' grandi, richiedono di essere dimezzate dal cucchiaio. Nel menu di Novembre 2019. Riviste nella corrente.
Versione nelle ciotole bianche
Per una cena-sbrighiamoci, ne tiro fuori un po' dal freezer: reggeranno, non reggeranno? Reggono, forse appena un po' meno, io sono anche un po' sgarbata, un paio si rompono; il brodo è bello scuro, saporito, non ho alcuna voglia di chiarificare: tutti ci si consolano. Nel menu di Gennaio 2029. Una cena appena un po' indiana, ma sotto la protezione di Gau Mata, Kamdhenu, Surabhi.
domenica 25 gennaio 2009
Zuppa di anguilla con cipolline e prezzemolo
Da Mentuccia.
Brodo di anguilla del farmacista
Mettere a bollire dell’acqua con molte cipolline fresche e molto prezzemolo tritati.
Quando bolle si gettano dentro le anguille a rocchetti e si aggiungono sale, pepe appena macinato e olio. Quando le anguille sono cotte (10') si tolgono.
Si rende il brodo più denso con un po’ di farina.
Si serve sul pane casereccio abbrustolito.
Il brodo di anguilla era una specialità del farmacista di Arpino, una piccola cittadina collinosa del Basso Lazio. Il farmacista e il notaio andavano a caccia insieme e abitavano in case vicine. Vecchie case dalle molte stanze e scale, appoggiate una accanto all’altra sul pendio di Arpino. Quando nevicava, la giovane moglie di farmacista e la figlia di notaio, mia madre, si tiravano le palle di neve dalla finestra raccogliendo la neve dal tetto. Notaio e farmacista si scambiavano inviti, le mogli cucinavano e tiravano fuori dalle vetrine piatti bianchi col giro d’oro. Si mangiava in sale da pranzo con soffitti dipinti con ninfe danzanti, non mancava mai che nel vicolo risuonasse il suono di un pianoforte di qualcuno che lo stava imparando e molti gatti erano previsti tra tetto e vicinanze della tavola, ciascuno con il suo nome, e rispettato membro della famiglia.
Anche gli uomini si provavano in cucina. Nel retrobottega del farmacista, dalla porta sempre chiusa ai curiosi, ce n’era una, luogo ambito dai ragazzini esclusi e sede di chiacchiere maschili e prove culinarie su fornelli segreti (ricordo di mio fratello, uno dei ragazzini). La farmacia era ancora luogo di speziale, odorosa di medicine pestate nel mortaio e piena di barattoli anche troppo allarmanti: meglio non sapere ciò che galleggiava in mostra scientifica in certi vasi di vetro esposti nel ripiano più alto. Gli uomini cucinavano anche in casa se si aprivano situazioni eccezionali ed eccentriche. In tempo di guerra, a Pasqua, il notaio fece un agnello ripieno di pasticcio di maccheroni. Usò un riattivato forno del pane che stava, dimenticato da anni, in un anfratto della soffitta (quelle case erano labirintiche e imprevedibili). Un piatto così satrapico in tempo di guerra? Privilegio della campagna. In compenso, niente verdure.
Del farmacista, decantato come raffinatissimo buongustaio, si tramandano pretese: immaginava piatti a occhi aperti e chiedeva perentoriamente alla moglie di realizzarli. In questa storia ci sono molti occhi azzurri e celesti. Lei li aveva azzurri e lamentosi e si chiamava Celeste, lui di un gelido celeste, brillanti in una faccia da gufo bianco e liscio. Una volta, “andò a Parigi” e mangiò speciali lumache annotando ogni ingrediente per guidare la moglie nella esatta riproduzione. Molte volte quella cucinò lumache. Secondo mia madre Aida, che ama poco cucinare, amica del cuore di Celeste, lui era irritante e lei "poveretta". Comunque, Celeste passava parecchio tempo in cucina, e nonostante l'aria da vittima sospetto amasse starci. Se la cucina la si immagina come quella di mia nonna, la madre di Aida, aveva tecnologie ultimo grido. Banchi di muratura ricoperti di scintillanti piastrelle bianche facevano posto a file di fornelli a carbone regolabili (la bocca del fornello era rotonda, e un sistema di guarnizioni di ferro concentriche permetteva di ampliarla o diminuirla a seconda dello scopo), e un camino rialzato ad altezza di lavoro comodo, con grande paiolo di rame. Se invece si volesse immaginare meglio Celeste, si sappia che arrivò ad Arpino, sposa del farmacista, a diciannove anni; che era bella, bruna, cicciotta come si doveva essere, con la pelle chiara delle brune quando hanno la pelle chiara, e i già ricordati occhi azzurri un po’ da vittima. Arpino, ex regno di Napoli, è tra colline con olivi e ha vicino il Fibreno, una volta pieno di gamberi; le sue glorie sono Cicerone e Caio Mario, oltre che Giuseppe Cesari, detto il Cavalier D'Arpino. Mia madre è fiera di tali ascendenze.
Zuppa di anguilla con cipolline e prezzemolo di Artemisia
Quello delle foto. Le quantità? Possono variare. La quantità di anguilla farà di questo brodo un brodo leggero o un piatto sostanzioso. Sarà in ogni caso soave, e sconfermerà che l'anguilla è un pesce troppo grasso per il brodo. Con un chilo di anguilla assai viva, un mazzo di cipolline, un mazzo di prezzemolo, sei fette di pane, si fa un brodo per sei.
Mettere a bollire dell’acqua con gambi di prezzemolo, chicchi di pepe, gambi di cipollina fresca, sale.
Quando bolle buttarci dentro l’anguilla e lasciarla sobbollire per 20’.
Cavarla fuori, spellarla, spinarla, ricavarne le polpine.
Filtrare il brodo, ributtarci dentro la polpa di anguilla.
Tagliare a rondelle delle cipolline fresche, triturare delle foglie di prezzemolo.
Buttare nel brodo e far sobbollire ancora cinque minuti.
Tostare delle fette di pane casereccio, metterle nelle scodelle, versarvi il brodo d’anguilla, farvi un giro di pepe nero appena macinato e un giro d’olio d’oliva leggero possibilmente verde e fruttato.
FRANCIA. AUVERGNE. SAUGUES, I FORMAGGI DEL RESTAURANT LA TERRASSE.












Mentre andiamo per monti del massiccio centrale, seguendo la strada che portava a san Jacopo di Compostela, ci troviamo davanti la Bête de Gevaudan. Sulla cima di una collina compare la statua di un immenso lupo grifagno fronteggiato da una fanciulla con il forcone. Riconosco la bestia, forse un lupo, forse un mostro, che terrorizzò questa zona al tempo di Luigi XV, uccidendo nei campi imbiancati di neve pastorelli e pastorelle in un gelido inverno mai più dimenticato. Una fanciulla la affrontò e la mise in fuga, e a lei è dedicata la statua.
La statua preannuncia l’ingresso in Saugues, cittadina nella quale avevamo prenotato l’albergo, che ci ha accolto con un’ aria tosta, austera e montagnosa. Dal giornalaio-libreria in piazza si vendono numerosi libri sulla bête e perfino fumetti per ragazzi in cui non mancano straziati cadaveri di fanciulli; da essi si evince che nessuna chiarezza nel frattempo è stata fatta su chi o cosa fosse il mostro e insieme che la bête è una star locale, un aggregatore di senso e di identità, un modo per questi monti di segnare il momento in cui sono entrati nell’epoca moderna.
L’albergo, tenuto dalla stessa famiglia dal 1975, è stato scelto non so più su quale delle innumerevoli guide che ci stiamo portando dietro, non solo per la sua posizione sulla nostra strada, ma anche per la sua cucina. Ha un ristorante elegante e “cittadino”, che deve essere anche la consolazione dei locali. Le luci, i tavoli, la cucina, il modo in cui si presentano i gestori, tutto ci parla della cura attenta e rituale con cui è tenuto. Lo capirò meglio quando vedrò la mattina dopo la signora, che si aggirava vigile in sala in tubino nero e perle e sorriso, farci il conto vestendo in quel modo confidenziale che si adotta quando si fanno le faccende e non si aspetta nessun ospite; i suoi lineamenti un po’ spigolosi, che la sera avevano un’eleganza parigina, ora parlano dell’aria rigida e asciutta di montagna e ricordano le signore austere che si incrociano nella piazza della cittadina, in cui troneggia un immenso zoccolo di legno in memoria della povertà e dei geloni che hanno caratterizzato il luogo e insieme della loro principale industria. Di noi durante la cena si occuperà il gestore, un uomo grande e cortese, dalle abbondanti guance rosee, che parla più di qualche parola di italiano; per questo motivo e per un certo modo rotondo e clericale, lo soprannomino il seminarista. Sarà lui a presentarci con l’orgoglio che merita un immenso carrello di formaggi con una grande scelta soprattutto di prodotti locali, molti di fattoria e con il nome del produttore e del luogo di provenienza in bell’evidenza. Ricordo tra i miei assaggi il Salers, che non conoscevo e che trovo ottimo – è molto più facile trovare il Cantal - un Saint Nectarie e uno squisito Gaperon ail et poivre davvero diverso, per opulenza, per ricche cremosità e sapidità, da quello che abbiamo potuto assaggiare tramite il Comptoir de France a Roma. Altra scoperta locale della cena la Verveine, che non mi era nuova ma che non avevo mai veramente notato e che invece mi colpisce adottata in un dolce, un semifreddo, per il quale la trovo molto adatta. Ricordo del resto della cena, accurata ma con qualche venatura rustica che ti ricorda che sei a Saugues, un piatto di canard, una tatin di foi gras con le mele, uno chaud-froid alla menta.
Hôtel de La Terrasse
cours Doct Gervais
43170 Saugues
Tel. 0471778310
venerdì 23 gennaio 2009
Risotto al radicchio di Treviso, tardivo, secondo Maffioli.
Siamo in:
Risi, in particolare in Risi. Risotti. Di tutto un po'.
Culture e territori, Italia. Cucina e passeggiate, Venezia e il Veneto.
Ingredienti, Radicchio.
Da Artemisia
Usare le foglie che si spezzano o quelle esterne, ma che siano ben croccanti, lavarle ben bene, tagliarle a pezzettini e farle saltare in un soffritto di cipolla, aglio, olio d'oliva e burro.
Spegnere con mezzo bicchiere di vino bianco.
Aggiungere il riso vialone nano, e poi, poco per volta, del buon brodo bollente.
A tre quarti di cottura legare con una grossa noce di burro, e abbondantissimo parmigiano.
Aggiungere se occorre un po' di brodo bollente per portare il risotto alla consistenza all'onda: quando si versa nel piatto, deve allargarsi da sé verso i bordi (un po' più morbido di quello della foto, in effetti).
Aggiungere alla fine un po' di pepe nero appena macinato.
giovedì 22 gennaio 2009
FRANCIA. AUVERGNE. LA BÊTE DE GEVAUDAN.

Mentre ci addentravamo nel massiccio centrale, a una svolta di strada abbiamo incontrato la statua della bête de Gevaudan.
Forse l’ultimo mostro medioevale, e uno dei primi esempi che io conosca di un evento massmediatico, che le semplificanti necessità retoriche della nascente stampa sensazionalista – XVIII secolo - hanno contribuito a creare.
All’epoca di Luigi XV, nelle terre marginali, nevose, povere, scarsamente abitate, selvatiche del massiccio centrale della Francia, terre ancora dentro un’amministrazione feudale, si verificarono diverse morti violente, soprattutto di fanciulli e fanciulle, qualcuno di donna e nessuno di un uomo adulto. I cadaveri, straziati da profonde ferite, vennero ritrovati nei campi gelati, e le morti vennero collegate a un lupo di grandezza e ferocia innaturali, cui venne data una caccia eccezionale alla quale parteciparono anche le milizie del re.

Badate bene, molti furono anche i testimoni sopravvissuti. Ma se mai ci fosse ancora bisogno di verificare quanto sia difficile constatare qualcosa con i propri occhi, se tali occhi non sono supportati da opportune e condivise convenzioni su ciò che si sta vedendo, il caso della bête de Gevaudan si presterebbe benissimo. Quindi, molti testimoni, e nessuna certezza su ciò che si stava vedendo. Uomini lupo? Licantropi? Delinquenti perversi mascherati da animali mostruosi? Animali imprevedibili, enormi linci, ibridi di lupi e molossi, perfino tigri? Tutto è stato ipotizzato, supposto, discettato. E ogni ipotesi, fino ad oggi, è stata rifiutata come conclusiva.
Cacce confuse quindi, dall’esito incerto. Non si sapeva chi si stesse cacciando, né se lo si uccise; ci fu la morte di un paio di grandi lupi, che però lasciò in vita tutti gli scetticismi. Gli eventi restarono avvolti nell’incertezza e nei fumi di nebbiose e sinistre fantasie. Continuava a vivere nella fantasia alimentata dalla stampa un mostro animale, oppure un mostro umano, o meglio una combinazione dei due; si sospettò l’intervento di una sorta di principe balcanico locale assetato di sangue di fanciulli, si accusò la spietatezza dei luoghi e delle condizioni in cui vivevano quelle genti montagnose, si suppose la responsabilità di una violenta famiglia locale, che avrebbe dovuto essere dalla parte dei cacciatori e che invece poteva essere l’anima e il ricettacolo della belva, si disse pure che si trattava di una cospirazione governativa contro le genti del posto, non sufficientemente monarchiche.
Gli eventi produssero molta stampa, non solo in Francia ma anche in Inghilterra, dove si prese adeguatamente in giro un re che non riusciva a catturare la bestia con la sua armata. Ciò provocò una censura sugli eventi che arrivò al fatto che nei registri delle parrocchie non si poté più scrivere che si seppelliva qualcuno ucciso dalla bête; censura che, combinata con le “notizie” riportate dalla stampa che non rinunciavano al mostro, contribuirono a confondere definitivamente le piste e a sollecitare la credenza in una indefinibile, suggestiva e alla fine intoccabile creatura non umana, sovrumana. Vennero pure prodotte molte immagini che ancora oggi spaventano per l’incantamento possono suscitare attraverso la commistione di crudeltà e sessualità sanguinosa.

La nostra tappa a Saugues nell’Auvergne, al centro del territorio che fu percorso dalla bête, e la visita nell’edicola – libreria locale ci fa scoprire che ancora oggi ancora si discetta su cosa successe senza venire a capo di nulla, incerti tra bestie e uomini, e anche se molti sospetti vertono su questi ultimi, nell’iconografia vince senz’altro la più pittoresca, immaginifica bestia. Tanto pittoresca e tanto immaginifica da venire assunta come icona del posto, e proposta nei fumetti per i bambini come in numerosi libri che continuano ad essere venduti ai viaggiatori che passano di lì.
Le immagini, da betedugevaudan.com
Radicchio di Treviso alla parmigiana
Siamo in:
Verdure e vegetali, in particolare, Verdure e vegetali. Sformati e Pasticci.
Culture e territori, Italia. Cucina e passeggiate, Venezia e il Veneto.
Ingredienti, Radicchio.
Artemisia da Giuseppe Maffioli, La cucina trevigiana, Franco Muzzio Editore, 1983. Poiché il bel libro di questo autore sulla cucina trevigiana è al momento introvabile, faccio opera benemerita diffondendo le sue ricette con il radicchio trevigiano. Fu occasione di uno spuntino con delle schie con polenta bianca. Molto apprezzato da Nunchesto. Ho usato delle foglie sfuse tagliate a bocconi, molto più economiche dei cespi.
Disporre mezzi cespi di radicchio in una pirofila, irrorandoli di panna liquida - ne basta un sorso, diciamo 60g circa - e cospargendoli di pepe e sale.
Porli in forno con coperchio per cinque minuti.
Togliere il coperchio, cospargere di abbondante parmigiano, rimettere il coperchio per tre minuti e poi toglierlo, lasciandolo in forno per altri due.
Servire bollente.
Radicchio di Treviso alla besciamella
Siamo in:
Verdure e vegetali, in particolare, Verdure e vegetali. Sformati e Pasticci.
Culture e territori, Italia. Cucina e passeggiate, Venezia e il Veneto.
Ingredienti, Radicchio.
Da Artemisia
Da Giuseppe Maffioli, La cucina trevigiana, Franco Muzzio Editore, 1983. Poiché il bel libro di questo autore sulla cucina trevigiana è al momento introvabile, faccio opera benemerita diffondendo le sue ricette con il radicchio trevigiano. Si preparano come alla parmigiana, poi si aggiungono besciamella e uovo.
Disporre mezzi cespi di radicchio in una pirofila, irrorandoli di panna liquida - ne basta un sorso, diciamo 60g circa - e cospargendoli di pepe e sale.
Porli in forno con coperchio per cinque minuti.
Togliere il coperchio, cospargere di abbondante parmigiano, rimettere il coperchio per tre minuti e poi toglierlo, lasciandolo in forno per altri due.
Adesso si irrorano con una besciamella fluida, arricchita di parmigiano grattugiato e di tuorlo d'uovo.
Coperti che siano bene bene dalla salsa, si rimettono al forno senza coperchio per una lieve gratinatura.
Si servono caldissimi.
Panada speziata
Artemisia Comina
Penso: in quanti modi si può ammannire questa panada? Mi viene in mente che sarebbe buona con le cipolle, ma si deve rimandare, il pane ammollato, con tre versioni di zuppa, è finito. Le altre due: Panada con la luganega rosolata; Pappa con il pomodoro con la menta.
La base è pane casereccio secco e ben ammollato in acqua: due scodelle nel mixer, e frullare finemente.
Quindi mettere in pentola, aggiungere un bicchiere di latte intero, un pizzico di sale.
Cuocere il tutto per 30’, mescolando.
In fine cottura aggiungere e sciogliere una noce di burro.
Fuori dal fuoco aggiungere 100g di pecorino non piccante grattugiato, una punta di chiodi di garofano in polvere, un cucchiaino di cannella, un bel pizzico di noce moscata.
Mescolare e mettere nelle scodelle.
Spolverare in abbondanza con pepe bianco appena macinato.
FRANCIA. AUVERGNE. LE PUY EN VELAY. MADONNE NERE.

La Madonna di Notre Dame a Le Puy en Velay, nera come il carbone, è un’ottocentesca, del tutto approssimativa evocazione dell’originale, bruciato durante la Rivoluzione. Non ha charme, ma ha davvero molti vestiti per tutte le occasioni rituali possibili, come – badate bene e ricordatevelo - una divinità egizia.
Si dice che l’originale fosse stato offerto da Luigi IX al ritorno da una crociata. Corre voce che fosse un’Iside con Horus tra le braccia, adottata senza tante storie dal cristianesimo.
Quella che vedete sotto è una copia più fedele della bruciata, anch’essa conservata a Notre Dame, eseguita in base a un’incisione dell’originale fatta da un tizio che ancora ce l’aveva sotto il naso. Questa seconda Madonna ci dice fino a che punto la copia ottocentesca, pur desiderosa di sanare la perdita, non abbia osato di fatto riprodurre l’originale nella sua strana e allarmante fisionomia dal lunghissimo naso e gli occhi allarmanti. Da ciò deriva quell’aria da goffa bomboletta senza identità dell’attualmente venerata. Ma tutta la storia delle Madonne nere che popolano la Francia è segnata da un’intensa ambivalenza: questa Madonna nera la vogliamo, ma insieme ci fa paura, non sappiamo bene cos’è. La vogliamo nera come il carbone e all’uopo le diamo una bella passata di vernice, ma è solo abbronzata, è solo affumicata. La mettiamo qui in cima all’altare, accorriamo da dovunque a fiumi per venerarla, ma alla prima occasione la bruciamo, e così via.

Quanto alla cattedrale, ad arricchirne ancora le radici, si sappia che sorge su un antico luogo gallico di culto delle pietre guaritrici, e una ancora è lì, in bella vista, per chi in preda alle febbri voglia stendercisi sopra. Pietre che non si è mancato di mettere in relazione con le Madonne, nel cercare tracce di continuità tra antichi e nuovi culti. Sempre a proposito di pietre ed eccentricità suggestive, si dice che quando l’originale venne bruciato, ne saltò fuori – era una scultura di legno cavo - una pietra segnata di geroglifici.
Quella di Puy en Velay è la prima Madonna nera della Francia centrale che incontriamo. Statue in cui madre e bambino se ne stanno rigidi e ieratici, l’uno incastrato nell’altra, occhi enormi e fissi, che più che guardarti si offrono perché tu ci guardi attraverso: fanno trasparire un altro mondo. Forse per questo spesso questi occhioni sono stati completamente dipinti di nero, offuscati e chiusi dal nero della vernice. Grande seduzione di questa divinità scura e composita, che è arrivata anche in qualche luogo d’Italia attraversando tempi che quasi non la riconoscono più. Una magnifica Madonna nera italiana sta a Tindari, in Sicilia, isola densa di Madonne nere.
Su questa Madonna nera leggo in cattedrale giustificazioni imbarazzanti: è nera perché neri erano i vignerons, i vignaioli bruciati dal sole, è nera per il fumo delle candele…di fatto in tutta la Francia, con una particolare concentrazione auvergnate, ci sono Madonne bianche che sono state dipinte di nero, perfino nel XX secolo, o nere che sono state dipinte di bianco, in un turbolento alternarsi di negazioni e resurrezioni di un significato simbolico oscuro e insieme irrinunciabile.
Tutto il corteo di simboli che accompagna queste Madonne, come i ritrovamenti entro cavità di alberi, in grotte, in luoghi umidi o sul bordo di fiumi, entro sarcofagi sepolti nella terra, il loro scegliere il luogo del culto diventando improvvisamente pesati e irremovibili, rimandano a divinità ctonie e alle dee sia locali che orientali che furono venerate in questi luoghi fino al V secolo circa, per poi scomparire e ricomparire nel XII come portate dai crociati, da San Luigi che tornavano dalla Palestina, dall’Egitto. Una di loro Notre-Dame de Meymac, viene chiamata l’Egiziana e ha un turbante dorato; quando i rivoluzionari aggredirono quella di Puy en Velay pare gridassero: bruciamo l’Egiziana!
Notre-Dame de Chalet.

Notre-Dame de la bonne mort a Clermont-Ferrand.

Notre Dame de Marsat.

Notre Dame de Saint Gervazy; l'immagine, da qui.

In lieuxsacres molte immagini – anche queste di AAA - di Madonne nere.
Qui se ne parla: viergesnoires.
Interessante la storia del restauro della siciliana Madonna di Tindari: appare un groviglio di storie, ipotesi, interventi assai suggestivo; tra l’altro, si fa l’ipotesi che la Madonna di Tindari sia stata scolpita da una scultore dell’Auvergne che però faceva pure il crociato in oriente. Se volete leggerne, cliccate sul sito del santuario e poi sul Restauro della statua.
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