sabato 31 luglio 2010

Sgombri profumati


Di Isolina

Ieri, prima che si scatenassero gli elementi e ci investisse il più impressionante diluvio mai visto, e che poi si allagasse la cantina ahimè ohimè, era prevista una grigliata di sgombri al finocchietto.

Nella pancia aglio abbondante e fette di limone, il tutto irrorato d'olio d'oliva.

Sono finiti in forno, dentro un cartoccio appunto, con finocchietto in fronde e rametti, che ne ha reso veramente profumata la carne e risparmiato il residuato odore non proprio gradevole.

Polpette di patate croccanti come contorno.




EBRIDI ESTERNE, LEWIS. IL BROCH DI DUN CARLOWAY. UNA TORRE DI PIETRA A SECCO.








Lewis, costa occidentale, verso nord. Broch di Dun Carloway; in gaelico, Dùn Chàrlabhaigh.

Torre, fattoria, fortezza; una delle 500 che orlano le coste scozzesi, tra le meglio conservate. Anche qui, molte interpretazioni: 100 prima, 100 dopo Cristo. Come erano fatte? Interessante: una doppia parete di pietra a secco, l’interno dritto, l’esterno declinante. In mezzo, una camera d’aria con passaggi e una strana scala di pietra, a pioli, conficcata tra le due pareti, che si arrampica. Contro il vento, contro il freddo, contro il caldo.

Sopra, un presumibile tetto di legno e forse paglia, come le black houses. Dentro, due o tre piani. Al piano terra si immaginano gli animali, i laboratori, le attività di fattoria, sopra gli umani. In cima, un buco per far uscire il fumo del focolare centrale.

Un cartello ci dice che nel XVI secolo questo broch è ancora servito a un gruppo di Mc che fuggiva un gruppo di altri Mc e ci si era asserragliato dentro. Ma uno dei Mc di fuori l’ha scalato e ha buttato nel buco dell’erica incendiata, costringendo i Mc di dentro a uscire. Vuol dire che all’epoca il broch era ancora del tutto in piedi e che qualcuno per qualche scopo ne faceva manutenzione.

Chi li aveva costruiti? Ipotesi su ipotesi: forse, torri di avvistamento contro le popolazioni spinte verso nord dai romani. Oppure, contro tutti quelli che rappresentavano un pericolo. Ma non solo contro, anche dimostrazioni di prestigio da parte di personaggi che avevano abbastanza potere da costruirsene uno.

Ma finiamola qua, che le ipotesi degli archeologi potrebbero essere le più curiose. Quel che resta del broch, esposto al mare e ai venti sul suo promontorio, con la sua porticina così bassa – unica apertura verso l’esterno, oltre al ferale camino – da costringere a entrare curvi, è suggestivo. Fa pensare a quelle donne e a quegli uomini, al loro buio operoso, che ritroveremo nel villaggio dell'età del ferro (500 – 600 anni a.C.) scoperto sull'isola di Great Barnera e nelle black houses ottocentesche. Si filava, si tesseva, si cucinava, si forgiavano attrezzi, si affumicavano pesci…e così per secoli. Tanto per dire: il tweed pare abbia una storia millenaria.

Circa il broch, undiscoveredscotland

Polpette di patate croccanti



Di Isolina

Grazie al mio pregevole marchingegno, ho tagliato a nastro una grossa patata, l'ho messa in una ciotola, l'ho condita con un mezzo cucchiaino di curcuma, una puntina di peperoncino piccante in polvere e una cucchiaiata di pane grattato fine (niente sale che sarà messo in tavola).

Ho mescolato bene, poi con mani bagnate ho formato delle polpette rotonde, piuttosto piatte.

Messe in padella antiaderente con pochissimo olio d'oliva, a fuoco vivo, schiacciate con spatola, abbassato il fuoco e lasciate dorare per 5 minuti. Poi voltate sull'altra faccia pallida e fatte dorare. Leggere, croccanti e belline da vedersi.

Hanno accompagnato degli sgombri profumati.



venerdì 30 luglio 2010

ROMA. LA STATUA DI PIAZZA DI PIETRA.

EBRIDI ESTERNE. UCCELLI MARINI.






A proposito, non mancano gli oystercatcher. Da noi, beccaccia di mare. Ma io li ho visti sempre nei mari del nord, e a quelli li associo. Fanno pensare, neri bianchi e rossi, a carabinieri; li abbiamo anche visti in elegante volo su Sgarasta, con acuti “pio”, livrea elegantissima e formazione perfetta.

Tornando alle nove dopo la cena allo Scarista Hotel, cielo ancora chiaro, su un prato mi pareva di averne visto un piccolo battaglione in marcia, ma poi mi accorgo che non ci sono becchi rossi, e alcuni sono del tutto neri. Chi saranno?

Piovanelli tridattili quelli più chiari, piovanelli pancianera quelli scuri. Così mi dicono da quel magnifico sito che è naturamediterraneo.

Foto di Nunchesto.

EBRIDI ESTERNE. LEWIS. GEARRANNAN BLACK HOUSE VILLAGE.



















Dopo il broch, proseguendo verso nord, un intero, piccolo villaggio di black houses. Abbandonato all’inizio degli anni ’70 del novecento, alla fine dello stesso secolo diventa, restaurato e svuotato, un museo e altro.

Una sola casa è restata “com’era”. Tre stanze, due per soli umani, una per umani e animali. Mucche. Mentre le pecore e i maiali avevano una dependance per loro. Insieme alle mucche si tesseva, con un “moderno” telaio pieno di ingranaggi. C’era anche un generatore (mi pare di aver capito).
Le due stanze per soli umani sono separate da quella condivisa con le mucche da un piccolo fresco vano, (in inverno invero assai fresco) aperto sull’esterno – infatti è lì l’ingresso alla casa – dove si conservava il latte e in un piccolo catino – brrrr- ci si lavava. Una delle stanze solo umane è con camino (e già, non c’erano le mucche), tavolo, credenza e letto matrimoniale; l’altra pure con camino e due letti-armadio. Nessuna traccia di wc.

Il resto delle case è caffeteria, self catering houses, ostello. Il villaggio è appoggiato, obliquamente, al mare, a una baia. Si immaginano le onde, se irate, arrivare alla porta di casa. Pare fosse abitato da un’unica, grande famiglia allargata. Nel “museo”, foto, ricordi, piccoli oggetti. Molti fantasmi e qualche stretta al cuore.

Perché sono finite le black houses? Più a nord se ne conserva una più “antica”, senza tutte queste migliorie anni ’70 come il generatore o il rivestimento di legno alle pareti e - soprattutto - il camino invece che il fuoco a terra, centrale, con il fumo che filtrava dall'intero tetto di paglia. Anche quella metà per gli umani, metà per gli animali. Abbandonata dalla vecchia proprietaria, recalcitrante e non di sua volontà, negli anni ’60 e solo quando il governo le ha promesso che le costruiva una withe house (così si chiamano le case nuove) con una metà per i suoi animali.

Il governo? Recalcitrante? Ma perché? Haimé, quando si è poveri, senza potere, si è spesso vittime di “progetti” e di “interventi”. Se entra in campo l’igiene, poi, siamo perduti. Questo agli abitanti delle Ebridi è capitato spesso. Prima o poi, in queste note, dovrò parlar male dei lord inglesi. Che non parlavano gaelico. Quanto al prence Charles, l’attuale, è stato fotografato a cavar patate con uno del posto, e viene detto grande amante della cultura gaelica.

Dalle foto di Nunchesto si vede molto bene come il tetto di paglia sfidasse le nordiche tempeste atlantiche poiché trattenuto saldamente in capo alla casa da una salda rete da pesca tenuta giù da grandi sassi. Il tetto andava rifatto ogni anno e all'opera collaborava tutto il villaggio. Appena cessa la manutenzione del tetto, la casa inizia rapidamente a rovinare. E' per ciò che molti sono i ruderi in avanzato stato di disfacimento, anche se l'esempio del restauro di Gearrannan viene seguito da alcuni che affittano poi la black house, restaurata e mutata all'interno da un confort "moderno", ai turisti. Si vede bene anche il grande spessore delle mura, al vertice delle quali cresce un praticello di verde erbetta. Sono mura a secco, doppie, con un vano in mezzo riempito di torba. La pianta della casa è sempre allungata; quando veniva ampliata, una nuova stuttura, del tutto analoga, veniva affiancata alla prima.

Il sito del villaggio.

Foto di Nunchesto.

giovedì 29 luglio 2010

EBRIDI ESTERNE. HARRIS. SGARISTA. SCARISTA HOTEL. LA CENA.





Va be’, ma cosa abbiamo mangiato a Scarista?

Un paté di fegato d’anatra con una piccante, agra marmellata che sembrava di frutti rossi, ma avrei detto che c’erano anche cipolle, con brioche. Accanto, un bicchierino di Sauternes. Pane caldo e buono di farina gialla, con ottimo burro. Quindi delle Harris scallop, ovvero delle capesantone giganti, tre, ottime, grigliate e condite con una salsa al burro e aceto balsamico - gocce – e le solite verdurine baby, carotine, rapine, che qui valgono l’occhio della testa, basta vedere cosa vendono negli store. Inoltre, massimo dei preziosismi, dei chicchi di melograno (oddio la Persia nelle Ebridi Esterne). Insieme, delle patate bollite bollenti dall’aria improvvisamente molto rustica (pezzetti di buccia, occhi lasciati lì): tenerezza. Ma non mancherò di notare che per accompagnare il sughetto delle scallop avrebbero dovuto essere più morbide. La coda di paglia induce le cuoche UK a verdure dure. Poi fichi caramellati, cialde, gelato di nocciola o meglio vaniglia con granulato di nocciole dentro. Abbiamo evitato il vassoio di formaggi locali (?) ricco. Ristorante pieno, chiacchiere, luci e ambiente morbidi, tutto molto cosy. Tra pensione ed eleganza.

Infine, incrociata la cuoca: una signora apparentemente quarantenne dall’aria lievemente mesta. Pare che Sgarasta sia aperta tutto l’anno (come fa?). Scambiate gentili parole. Adocchiata una ciotola con delle piccole, rosee, rigate cipree che ancora non avevo visto tra le conchiglie e che nei giorni successivi cercherò con successo; mi dicono dei momenti liberi della dama.

Impressioni complessive sull'Hotel, di cui ho parlato anche qui. Come si vede, mi ha affascinato. Qui le Ebridi vengono fortemente addomesticate e l'aria brithis, sia pure scozzese, soffia dolcemente sull'arredo e sul cibo.

Nell'Ardhasaig Hotel dove alloggiamo, l'incertezza con cui la nuova cultura isolana, dimentica di un passato recente che sfugge e si perde, si avvicina a poltrone e stampe e budini si sente parecchio, e io vagavo un po' persa nelle stanze di soggiorno ampie, bianche, piene di spifferi che certo un isolano non percepisce, spaventata da un arredo per me ostile che continuavo a rifare con la fantasia senza riuscire a venirne a capo; per dire, di quel camino di vivide e luccicanti piastrelle azzurre che mi minacciava e che è la gloria dell'Hotel non sapevo proprio che fare. Noto per altro che l'Ardhasaig riceve, proprio nel 2005, anno di cui racconto, premi e riconoscimenti come ottimo albergo di Scozia, e che pareri di viaggiatori sullo Scarista sono molto oscillanti, da ottimo a pessimo. Suppongo - sono certa - che non per tutti valga la suggestione che io subisco da parte di certe atmosfere e che un certo vecchiotto che mi piace indispettisca altri. Anche il cibo mi è parso meglio padroneggiato qui allo Scarista; prezzi analoghi, sulle 40 sterline.

Foto di Nunchesto. Siccome non ero io a fotografare, niente piatti e niente albergo, ma la splendida spiaggia.

ROMA. LE DUE STELLE DEL RISTORANTE IL PAGLIACCIO. ESERCIZI LETTERARI, OVE LA FOTO FU IMPEDITA.





Torniamo al Pagliaccio e scopro che il versante malmostoso dello chef, Anthony Genovese, si è tradotto nella proibizione di fare foto, segnalata nel menu come rispetto della privacy (? ). Mi toccherà così vedere se sono in grado di ricordare ciò che ho mangiato. Scoprirò che sarà ciò che mangio a farsi ricordare; nel frattempo, metto alla prova la lingua ove l’occhio deve tacere.

L’amuse bouche son due succose fettine di pollo dalla pelle caramellata che arrivano racchiuse in due sfoglie sottilissime e croccanti di pasta di riso e accompagnate da nere gocce di liquirizia e morbide stille gialle di crema di mango; essenziale il tocco verde, piccante e acido della melissa. Il piatto è un rettangolo smilzo di porcellana bianca.

Il pane che l’altra volta mi aveva lasciato perplessa ha acquisito almeno una cosa ottima: una cosiddetta carta da musica che da spessa e tosta che era nella precedente visita è diventata sottilissima, croccante, con cristalli di sale che scricchiolano deliziosamente, rosmarino che profuma. Ottima, fin troppo. Ne mangerei fino a distrarmi. Pane alle noci normale, grissini ritorti pure.

Gnocchi di ricotta di pecora, diceva la ricetta: arrivano dei fagottini pizzicati, così da assumere foggia di cappellino con la punta, di una pasta spessa e insieme lieve, ripieni di ricotta e ricci; sono buttati qua e là su un piatto molto piatto e bianco, sul cui fondo c’è un velo dorato e limpido e saporitissimo di brodo di pesce, come se un colpo di vento avesse tolto di testa i cappelli a un gruppetto di educande a spasso e li avesse fatti rotolare in giro. L’estetica e il gusto vogliono che gli gnocchi siano punteggiati di verdi foglioline, il laghetto di occhi colorati fatti di misteriosi e certamente essenziali nonnulla.

Due gentili totanetti (speriamo in linea con la raccomandazione di non pelare il mare da ogni vita) giacevano leggermente sfasati su una scaglia di nera lavagna, avvolti in un velo di lucidi e molli succhi bruni, la loro chioma di tentacoli vezzosamente arricciati giacente appena un po’ più in là, quest’ultima avviluppata in un nonnulla di pastella e cotta in tempura, loro invece ben ripieni di leggerissimi, multicolori capellini di verdure; ammappate, direte, spappolatine, forse. Emmanco per niente. Croccanti, invece, come ricetta recita. E accanto, una morbida quenelle di crema di riso adagiata come un lieto fachiro su dei leggeri, vuoti e scricchiolanti grani di riso soffiato, nero e bianco. E accanto ancora, una liscio cucchiaino di porcellana bianca racchiudeva, pronto a lasciartelo scivolare in bocca, una bocconcino di fredda granita di limone dalla finissima grana.

Arrivano poi in un alta coppa svasata e lucente con uno stelo così sottile che te lo senti spezzare in mano, alcuni frammenti di pesca caramellata coperti da una granita fine di pesca al vino di un tenerissimo rosa alba. Tutto questo roseo porta infitta, come il crudele pugnale trafigge il cuore nel simbolismo amoroso, una scaglia di un nero, trasparente croccante.

Infine un piccolo babà arriva, adagiato accanto a una pozza di crema di mango mentre una fila di perfetti quadratini di ananas arrostito e al cardamomo lo fronteggiano; vicino a loro si dondolano sui fianchi rotondi, rischiando di versare la cucchiaiata di latte di cocco che racchiudono, due mezze noci di cocco fatte di una sfera cava di bianco gelato al cocco rotolata nel cacao, spaccata e così offerta. Delle righe di caramello zigzagano nel piatto.

La faccenda viene conclusa da un piatto di dolcetti molto variegato, di cui alcuni buoni, altri meno. Diciamo, non così tanto buoni da farsi mangiare proprio tutti in quella fase del pasto dove mangi solo per scostumatezza.

È la terza volta che ci andiamo; la prima almeno sette anni fa, quando era ancora un normale ristorante con un promettente giovane cuoco; lieta sorpresa già solo nel mangiar bene in una città che non brillava per questo. La seconda, nel 2007, l’ho ricordata in AAA: cose buone, ma non tutte talmente buone, un andamento molto zigzagante di su e giù; questa volta abbiamo trovato un magnifico salto di qualità (e di prezzi: 150 euro a testa incluso il vino); solo i dolci – affidati a una brava pasticcera, Marion Lichtle - non sono ancora perfetti (alcuni dolcetti troppo secchi e privi di un vero perché, la boccia di gelato di cocco davvero troppa, sbilanciava il piatto e rendeva il babà piccolo e trascurato), e il pane può migliorare ancora.

Cosa ha mangiato il Nunche, non posso descriverlo, dico solo che ho visto certi cosiddetti dim sum sferici e verdi affogati in un brodo schiumoso di tè che parevano bellissimi (il cuoco ha suggestioni orientali).

Sauvignon Marai Davino Buttrio 2008.

Che aria tirava sul versante umano? Un rinnovato staff di sala, molto attento, perfino in eccessiva tensione perfezionistica, ma che presto diventa cordiale; ospiti assortiti di varie lingue, anche dell’est, pochi romani.

Il post di AAA sul Pagliaccio 2007.

Il Pagliaccio

via dei Banchi Vecchi 129a

Poiché non ci fecero fotografare, illustriamo con la via che porta al ristorante da casa nostra (un grande vantaggio: possiamo andarci a piedi). Il Tevere da Ponte Sisto, via Giulia, il giardino di Palazzo Farnese sbirciato dal cancello, la Fontana del Mascherone. Aggiungo che un’altra cosa da migliorare è il sito. Pessime foto dei cibi, guarda un po’.

EBRIDI ESTERNE. HARRIS. SCARISTA HOTEL. COSA ASPETTARSI.




Sgarasta non è stata l’unica spiaggia della giornata, anche se forse la più bella e certo la più emozionante. Ma prima di dire qualcosa delle altre, resto lì per parlare dello straordinario hotel che si affaccia su un declivio erboso che scivola in lungo pendio fino ad essa.

Allora, Scarista House. Ci arriviamo alle sette, dopo una lunga stancante giornata a zonzo. Saliamo fino ad essa. Cancello, siepi fitte di rose rugose (che qui prosperano) oltre il muro di pietra che divide il selvatico prato fiorito dalla casa, anzi dal piccolo giardino sulla facciata. Il prato, attraversato da una stretta stradina in salita, è gloriosamente colmo di erbe e i bordi sono vivamente fioriti. Fiori selvatici questi, ricchi come dovunque in questo momento sulle isole. Ma al riparo dei muri, quando si può vedere oltre, ecco ricche bordure, più rare, di fiori coltivati. I proprietari hanno il pollice verde. Non è facile trovare l’entrata: la facciata sembra chiusa; giriamo intorno, vediamo le porte di servizio, e poi ancora su un lato un altro piccolo giardino, privato parrebbe, dove un ragazzetto che si arresta perplesso sta suonando una chitarra. Sul giardinetto dà una porta finestra che lascia intravedere una stanza colma di tutto, che certamente non è una hall di un albergo. Dietro front, già con l’impressione che siamo capitati in un curioso posto. Denso, se così si può dire. Pieno di persone, o cose, o vita. Troviamo sulla facciata una porticina defilata (c’è vento qui, cari miei, in inverno).
Piccolo atrio con stivali di gomma in fila, mazze da golf, attrezzi da pesca. Ci infiliamo. Ingresso, scale che salgono, di nuovo sensazione di un posto pieno di gente, cosa strana dopo ore di silenzi rarefatti. Una fanciulla grassa dai capelli neri e le guance molto rosa ci accoglie, ci individua, vi spedisce in biblioteca a consultare il menu: “Ecco, la porta della biblioteca è questa, subito a sinistra”.

Entro, e mi ritrovo, con immenso divertimento preceduto e accompagnato da spaesamento in un mondo irreale. Non basta la stanza, già strana in sé: la cerchia di profondi divani e vecchie poltrone che la riempie interamente, la parata fitta di libri molto sfogliati, il camino spento ma vero, le porcellane spaiate, le stampe e i disegni alle pareti, il pianoforte spinto contro il muro, tutto quell’insieme di oggetti “di casa”, ma di una famiglia bizzarra, però, e interessante, come a volte trovi nei più gradevoli alberghi del Regno Unito. No, tutto questo non basta. Benché molto strano, non da Ebridi Esterne. Non da quelle Ebridi finora immaginate e viste, di spoglie casette appena nate al gusto dell’Inghilterra, che non racchiudono questi tesori veramente molto british, che raccontano tutta un’altra storia assai più insulare.

Insomma tutto è strano, è sorprendente, ma la cosa che colpisce davvero, che lascia esterrefatti, sono i tre personaggi seduti sul divano, sprofondati nelle poltrone. Due vecchie signore e un signore altrettanto antico così perfettamente in tono con la stanza da sembrare tre fantasmi che la abitano da sempre. Le signore, vagamente malmostose, immerse in una lettura che subito lasceranno per implicarsi in una conversazione che verrà presto promossa da lui, il pezzo forte dei tre. Sarà la massiccia figura, la ricca chioma candida gettata indietro in un’unica onda, il viso dalle grandi guance rosee, gli occhiali dalla montatura scura disegnata sul chiarore del volto, il vestito di velluto di un cupo blu (di fatti, tutto è vellutato in lui), i corti calzini bianchi, la voce lenta, rotonda, risonante che parla – meraviglia – un inglese un po’ strascicato, elegante, che si capisce. Così pure quello delle sue compagne è chiaro e cortese. Dopo un po’ arriva una terza signora, che non ha nulla della pungente malinconia dell’una o del lieve disappunto dell’altra già presenti. Questa, in età come le altre, assai abbondante e vestita di inopportuni veli chiari e fioriti che le volano intorno, è giuliva e l’unica di una qualche civetteria con un rossetto ben rosso e una crocchia soffice e alta, una matassa di capelli fini e un po’ dispersi. Si siede su un bracciolo, cinguetta. Sono tre sorelle, veniamo a sapere. Facile immaginare tutto un romanzo familiare con la sorella scapestrata e la disapprovazione delle due compunte. Una quarta vive a Roma. Le signore capiscono l’italiano, buono a sapersi. Eviterò di esprimere il mio entusiasmo per loro immediatamente. La malinconica – ti pareva – è la moglie del vellutato signore.

La sera cala doratamene dietro la finestra piccola ma estremamente panoramica; beviamo un aperitivo, sbircio tra i libri e ne scopro uno con la storia di Scarista che svela l’arcano. Si tratta di una antica casa parrocchiale riportata alla vita – tolte le molte erbacce e cacciati gli scarafaggi, con molta fatica dettagliatamente narrata – da una coppia di ex insegnanti di Aberdeen, Alison e Andrew Johnson, che l’hanno arredata portandosi tutto da lì, e se quando sei in Scozia non ti pare di stare proprio in Inghilterra, quando sei qui la Scozia diventa inglesissima.

PS: ho scoperto che quella lettura A House by the Shore, lasciata a metà con disappunto (è proprio il tipo di storia che mi piace) potrà essere ripresa, perché il libro si vende su internet. È in vendita anche sul sito dell’hotel o direttamente da Amazon. Il libro narra di come la vecchia casa, un presbiterio georgiano, divenne un albergo internazionalmente noto anche per la sua cucina, e riporta varie ricette di Alison, che si dette alla cucina.

PPS: in un altro post, tutta la cena per filo e per segno, e una complessiva impressione del luogo. Ovviamente, non posso garantire che i tre, così essenziali per la mia fascinazione, stiano sempre lì a fare conversazione con voi.


Sgarista House, Harris.


Immagine della casa dal Telegraph
La foto della spiaggia è di Nunchesto.

mercoledì 28 luglio 2010

EBRIDI ESTERNE. HARRIS. LA SPIAGGIA DI SGARASTA. LA STERNA.














Un posto bellissimo, con ampi prati folti di erbe e molto fioriti e una corona di bassi monti violetti volti al mare. Ampia, immensa spiaggia. Uno stretto, profondo golfo che in altri tempi è lucente d’acqua, ma ora è colmo di piatta, dorata sabbia asciutta sulla quale si cammina come su un pavimento di terra battuta; liscia, con qualche cacca di pecora sui bordi e – molto più belle, lucenti macchie argentee – di gabbiano. Ci si chiedeva attraversandola quando, se, sarebbe arrivata la marea. Siamo infine arrivati là dove la sabbia, come ci si aspetta, finisce nel mare. Un ampio arco di fini frammenti di conchiglie, che la costellano in fitti festoni che qua e là serbano gusci intatti che si nascondono come gioielli tra i frantumi. Questa volta, accuratamente esplorando, ho cacciato le rosee conchiglie neonate, sottili, trasparenti e minuscole che dal rosa maculato, appunto, vanno verso vividi aranci e il gialli. Solo un’altra coppia di umani in tutto l’arco della sconfinata spiaggia.

Ma l’episodio sorprendente, inaspettato, che turba è stato un altro. Camminavamo lungo la spiaggia. Io raccogliendo conchiglie carponi – haimé le gambe, haimé la schiena – il Nunche fotografando con aria sognante alghe e onde. Davanti a me. A un certo punto lo vedo con uno svelto uccello argenteo che rotea gridando su di lui. Anzi, che lo punta, e con alti stridi si avventa per rialzarsi radente alla sua testa all’ultimo momento. Accidenti, che succede? È una sterna, mi accorgo avvicinandomi. Un’elegante sterna in preda a una misteriosa furia. Non ho mai visto una simile scena, ma anche un babbeo penserebbe che un uccello fa questo se ci si avvicina al nido. Ma come può esserci un nido su una spiaggia? E le onde? E il mare che cresce? E l’uomo? Sì, ci sono grumi di alghe che forse…affascinata dall’uccello e dalla sua danza guerriera non voglio capire, ed ecco che ora punta su di me e mi viene addosso, prima gridando, poi quando è proprio su di me battendo il becco con un tatatatata da mitragliatrice. Infine, con una certa stretta al cuore vedo la sterna covante uscire ratta da un ciuffo di alghe e allora – infine! – non posso fare a meno di capire che abbiamo disturbato una cova. E allora, finalmente, quatti, con la coda tra le gambe, la testa bassa, invertiamo la marcia e torniamo indietro, inseguiti ancora per poco da qualche strillo, cui segue un silenzio sul quale ci siamo interrogati come due colpevoli: sarà tornata alla cova? Volevamo consolarci, pensando che la sterna guerriera sarà tornata al nido colma di vittorioso orgoglio. In realtà, non potevamo non pensare a quanta angoscia e spavento causata dai due affascinati umani.

Foto di Nunchesto.
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