giovedì 29 luglio 2010

EBRIDI ESTERNE. HARRIS. SCARISTA HOTEL. COSA ASPETTARSI.




Sgarasta non è stata l’unica spiaggia della giornata, anche se forse la più bella e certo la più emozionante. Ma prima di dire qualcosa delle altre, resto lì per parlare dello straordinario hotel che si affaccia su un declivio erboso che scivola in lungo pendio fino ad essa.

Allora, Scarista House. Ci arriviamo alle sette, dopo una lunga stancante giornata a zonzo. Saliamo fino ad essa. Cancello, siepi fitte di rose rugose (che qui prosperano) oltre il muro di pietra che divide il selvatico prato fiorito dalla casa, anzi dal piccolo giardino sulla facciata. Il prato, attraversato da una stretta stradina in salita, è gloriosamente colmo di erbe e i bordi sono vivamente fioriti. Fiori selvatici questi, ricchi come dovunque in questo momento sulle isole. Ma al riparo dei muri, quando si può vedere oltre, ecco ricche bordure, più rare, di fiori coltivati. I proprietari hanno il pollice verde. Non è facile trovare l’entrata: la facciata sembra chiusa; giriamo intorno, vediamo le porte di servizio, e poi ancora su un lato un altro piccolo giardino, privato parrebbe, dove un ragazzetto che si arresta perplesso sta suonando una chitarra. Sul giardinetto dà una porta finestra che lascia intravedere una stanza colma di tutto, che certamente non è una hall di un albergo. Dietro front, già con l’impressione che siamo capitati in un curioso posto. Denso, se così si può dire. Pieno di persone, o cose, o vita. Troviamo sulla facciata una porticina defilata (c’è vento qui, cari miei, in inverno).
Piccolo atrio con stivali di gomma in fila, mazze da golf, attrezzi da pesca. Ci infiliamo. Ingresso, scale che salgono, di nuovo sensazione di un posto pieno di gente, cosa strana dopo ore di silenzi rarefatti. Una fanciulla grassa dai capelli neri e le guance molto rosa ci accoglie, ci individua, vi spedisce in biblioteca a consultare il menu: “Ecco, la porta della biblioteca è questa, subito a sinistra”.

Entro, e mi ritrovo, con immenso divertimento preceduto e accompagnato da spaesamento in un mondo irreale. Non basta la stanza, già strana in sé: la cerchia di profondi divani e vecchie poltrone che la riempie interamente, la parata fitta di libri molto sfogliati, il camino spento ma vero, le porcellane spaiate, le stampe e i disegni alle pareti, il pianoforte spinto contro il muro, tutto quell’insieme di oggetti “di casa”, ma di una famiglia bizzarra, però, e interessante, come a volte trovi nei più gradevoli alberghi del Regno Unito. No, tutto questo non basta. Benché molto strano, non da Ebridi Esterne. Non da quelle Ebridi finora immaginate e viste, di spoglie casette appena nate al gusto dell’Inghilterra, che non racchiudono questi tesori veramente molto british, che raccontano tutta un’altra storia assai più insulare.

Insomma tutto è strano, è sorprendente, ma la cosa che colpisce davvero, che lascia esterrefatti, sono i tre personaggi seduti sul divano, sprofondati nelle poltrone. Due vecchie signore e un signore altrettanto antico così perfettamente in tono con la stanza da sembrare tre fantasmi che la abitano da sempre. Le signore, vagamente malmostose, immerse in una lettura che subito lasceranno per implicarsi in una conversazione che verrà presto promossa da lui, il pezzo forte dei tre. Sarà la massiccia figura, la ricca chioma candida gettata indietro in un’unica onda, il viso dalle grandi guance rosee, gli occhiali dalla montatura scura disegnata sul chiarore del volto, il vestito di velluto di un cupo blu (di fatti, tutto è vellutato in lui), i corti calzini bianchi, la voce lenta, rotonda, risonante che parla – meraviglia – un inglese un po’ strascicato, elegante, che si capisce. Così pure quello delle sue compagne è chiaro e cortese. Dopo un po’ arriva una terza signora, che non ha nulla della pungente malinconia dell’una o del lieve disappunto dell’altra già presenti. Questa, in età come le altre, assai abbondante e vestita di inopportuni veli chiari e fioriti che le volano intorno, è giuliva e l’unica di una qualche civetteria con un rossetto ben rosso e una crocchia soffice e alta, una matassa di capelli fini e un po’ dispersi. Si siede su un bracciolo, cinguetta. Sono tre sorelle, veniamo a sapere. Facile immaginare tutto un romanzo familiare con la sorella scapestrata e la disapprovazione delle due compunte. Una quarta vive a Roma. Le signore capiscono l’italiano, buono a sapersi. Eviterò di esprimere il mio entusiasmo per loro immediatamente. La malinconica – ti pareva – è la moglie del vellutato signore.

La sera cala doratamene dietro la finestra piccola ma estremamente panoramica; beviamo un aperitivo, sbircio tra i libri e ne scopro uno con la storia di Scarista che svela l’arcano. Si tratta di una antica casa parrocchiale riportata alla vita – tolte le molte erbacce e cacciati gli scarafaggi, con molta fatica dettagliatamente narrata – da una coppia di ex insegnanti di Aberdeen, Alison e Andrew Johnson, che l’hanno arredata portandosi tutto da lì, e se quando sei in Scozia non ti pare di stare proprio in Inghilterra, quando sei qui la Scozia diventa inglesissima.

PS: ho scoperto che quella lettura A House by the Shore, lasciata a metà con disappunto (è proprio il tipo di storia che mi piace) potrà essere ripresa, perché il libro si vende su internet. È in vendita anche sul sito dell’hotel o direttamente da Amazon. Il libro narra di come la vecchia casa, un presbiterio georgiano, divenne un albergo internazionalmente noto anche per la sua cucina, e riporta varie ricette di Alison, che si dette alla cucina.

PPS: in un altro post, tutta la cena per filo e per segno, e una complessiva impressione del luogo. Ovviamente, non posso garantire che i tre, così essenziali per la mia fascinazione, stiano sempre lì a fare conversazione con voi.


Sgarista House, Harris.


Immagine della casa dal Telegraph
La foto della spiaggia è di Nunchesto.

2 commenti:

papavero di campo ha detto...

leggerti artemisia è un piacere che coinvolge sensi e mente, hai una dote grande (nessun confronto di innumerevoli bauli ricolmi di dozzine di panni ricamati a tombolo potrà mai eguagliare il concetto di dote!)
hai descritto la scena con la vividezza di un occhio filmografico ed ho pensato a jane campion, altro più bel complimento non saprei farti!

artemisia comina ha detto...

grazie cara pap, farà piacere ad entrambe sapere che sei tra quelli che sono seduti con me sotto la pergola quando racconto :))

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...