giovedì 29 luglio 2010

ROMA. LE DUE STELLE DEL RISTORANTE IL PAGLIACCIO. ESERCIZI LETTERARI, OVE LA FOTO FU IMPEDITA.





Torniamo al Pagliaccio e scopro che il versante malmostoso dello chef, Anthony Genovese, si è tradotto nella proibizione di fare foto, segnalata nel menu come rispetto della privacy (? ). Mi toccherà così vedere se sono in grado di ricordare ciò che ho mangiato. Scoprirò che sarà ciò che mangio a farsi ricordare; nel frattempo, metto alla prova la lingua ove l’occhio deve tacere.

L’amuse bouche son due succose fettine di pollo dalla pelle caramellata che arrivano racchiuse in due sfoglie sottilissime e croccanti di pasta di riso e accompagnate da nere gocce di liquirizia e morbide stille gialle di crema di mango; essenziale il tocco verde, piccante e acido della melissa. Il piatto è un rettangolo smilzo di porcellana bianca.

Il pane che l’altra volta mi aveva lasciato perplessa ha acquisito almeno una cosa ottima: una cosiddetta carta da musica che da spessa e tosta che era nella precedente visita è diventata sottilissima, croccante, con cristalli di sale che scricchiolano deliziosamente, rosmarino che profuma. Ottima, fin troppo. Ne mangerei fino a distrarmi. Pane alle noci normale, grissini ritorti pure.

Gnocchi di ricotta di pecora, diceva la ricetta: arrivano dei fagottini pizzicati, così da assumere foggia di cappellino con la punta, di una pasta spessa e insieme lieve, ripieni di ricotta e ricci; sono buttati qua e là su un piatto molto piatto e bianco, sul cui fondo c’è un velo dorato e limpido e saporitissimo di brodo di pesce, come se un colpo di vento avesse tolto di testa i cappelli a un gruppetto di educande a spasso e li avesse fatti rotolare in giro. L’estetica e il gusto vogliono che gli gnocchi siano punteggiati di verdi foglioline, il laghetto di occhi colorati fatti di misteriosi e certamente essenziali nonnulla.

Due gentili totanetti (speriamo in linea con la raccomandazione di non pelare il mare da ogni vita) giacevano leggermente sfasati su una scaglia di nera lavagna, avvolti in un velo di lucidi e molli succhi bruni, la loro chioma di tentacoli vezzosamente arricciati giacente appena un po’ più in là, quest’ultima avviluppata in un nonnulla di pastella e cotta in tempura, loro invece ben ripieni di leggerissimi, multicolori capellini di verdure; ammappate, direte, spappolatine, forse. Emmanco per niente. Croccanti, invece, come ricetta recita. E accanto, una morbida quenelle di crema di riso adagiata come un lieto fachiro su dei leggeri, vuoti e scricchiolanti grani di riso soffiato, nero e bianco. E accanto ancora, una liscio cucchiaino di porcellana bianca racchiudeva, pronto a lasciartelo scivolare in bocca, una bocconcino di fredda granita di limone dalla finissima grana.

Arrivano poi in un alta coppa svasata e lucente con uno stelo così sottile che te lo senti spezzare in mano, alcuni frammenti di pesca caramellata coperti da una granita fine di pesca al vino di un tenerissimo rosa alba. Tutto questo roseo porta infitta, come il crudele pugnale trafigge il cuore nel simbolismo amoroso, una scaglia di un nero, trasparente croccante.

Infine un piccolo babà arriva, adagiato accanto a una pozza di crema di mango mentre una fila di perfetti quadratini di ananas arrostito e al cardamomo lo fronteggiano; vicino a loro si dondolano sui fianchi rotondi, rischiando di versare la cucchiaiata di latte di cocco che racchiudono, due mezze noci di cocco fatte di una sfera cava di bianco gelato al cocco rotolata nel cacao, spaccata e così offerta. Delle righe di caramello zigzagano nel piatto.

La faccenda viene conclusa da un piatto di dolcetti molto variegato, di cui alcuni buoni, altri meno. Diciamo, non così tanto buoni da farsi mangiare proprio tutti in quella fase del pasto dove mangi solo per scostumatezza.

È la terza volta che ci andiamo; la prima almeno sette anni fa, quando era ancora un normale ristorante con un promettente giovane cuoco; lieta sorpresa già solo nel mangiar bene in una città che non brillava per questo. La seconda, nel 2007, l’ho ricordata in AAA: cose buone, ma non tutte talmente buone, un andamento molto zigzagante di su e giù; questa volta abbiamo trovato un magnifico salto di qualità (e di prezzi: 150 euro a testa incluso il vino); solo i dolci – affidati a una brava pasticcera, Marion Lichtle - non sono ancora perfetti (alcuni dolcetti troppo secchi e privi di un vero perché, la boccia di gelato di cocco davvero troppa, sbilanciava il piatto e rendeva il babà piccolo e trascurato), e il pane può migliorare ancora.

Cosa ha mangiato il Nunche, non posso descriverlo, dico solo che ho visto certi cosiddetti dim sum sferici e verdi affogati in un brodo schiumoso di tè che parevano bellissimi (il cuoco ha suggestioni orientali).

Sauvignon Marai Davino Buttrio 2008.

Che aria tirava sul versante umano? Un rinnovato staff di sala, molto attento, perfino in eccessiva tensione perfezionistica, ma che presto diventa cordiale; ospiti assortiti di varie lingue, anche dell’est, pochi romani.

Il post di AAA sul Pagliaccio 2007.

Il Pagliaccio

via dei Banchi Vecchi 129a

Poiché non ci fecero fotografare, illustriamo con la via che porta al ristorante da casa nostra (un grande vantaggio: possiamo andarci a piedi). Il Tevere da Ponte Sisto, via Giulia, il giardino di Palazzo Farnese sbirciato dal cancello, la Fontana del Mascherone. Aggiungo che un’altra cosa da migliorare è il sito. Pessime foto dei cibi, guarda un po’.

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