




Appena scende dalla cavalcatura, l'arabo versa dell'acqua del suo otre in una ciotola di legno, ci aggiunge un po' della farina che si porta dietro in un sacco di cuoio e inizia a impastare; se ha del sale, cosa rara, ce lo mette. Intanto il suo compagno ha raccolto della legna, o dell'erba secca, o del letame, e appicca il fuoco. Mentre il fornaio improvvisato finisce di impastare, le braci, mescolate con abbondante cenere, sono pronte. La pasta, spolverata di farina e battuta per bene, viene arrotondata e messa in mezzo al fuoco, in uno spazio reso libero da cenere e braci; dopo di che il pane viene del tutto coperto da queste ultime. Dopo una mezz'ora l'arabo scosta la cenere e i carboni con un tizzone e rigira l'impasto, che altrimenti si carbonizzerebbe sopra e resterebbe crudo sotto. Questa operazione viene ripetuta due o tre volte, finchè il pane non sembra ben cotto; a questo punto si toglie dal fuoco e si mangia fumante.
Per degli uomini veri partire per la guerra
è una festa,
....
il miglior pane di città
non può competere con le gallette cotte sotto le cenere!
la birra più dolce
non vale l'acqua degli otri!
Il primo brano, da P. Jaussen, Cotume des Arabes au pays de Moab, 1907; il secondo, dal babilonese Poème d'Erra, entrambi citati da J. Bottéro, La plus vielle cuisine du monde, Luis Audibert, 2002. Un pane antico, che attraversa i millenni.
Foto di Nunchesto e Artemisia, Giordania, deserto di Wadi Rum.