Da Lydia
Gemmi, Ria: la ricetta di questo dresden christstollen arriva fino a Lydia dall'Ottocento, con un femminile passaparola da cucina a cucina, da cuoca a cuoca; la cosa comincia tra bisbigli e chiacchiere nei locali di servizio delle case di due grandi famiglie di Francoforte e arriva fino all'appunto che abbiamo consultato - era lì come un santino - tutto il tempo - lungo - passato a fare stollen (sei in tutto, mi pare: nel Palatinato gli stollen si fanno a schiere).
Lydia ci ospita nella sua bella casa nel Palatinato, nel Donnersberg, cuore profondo della Germania. Appartato, ondulato da bei colli vinosi, punteggiato qua e là da cittadine silenti e dormienti che votano a destra senza ripensamenti, collegato al resto alle vicine città da treni incerti ma a loro bastanti - meglio che il percorso non sia facile, arriverebbero scocciatori - quasi dimentico del passato principesco, abitato da famiglie che vanno compatte di casa in casa, in processioni ordinate, senza guardare né a destra né a sinistra, per celebrare innumerevoli propri compleanni, con poco altro che le distoglie da questo rito domestico. Lydia prova a sedurle con molti pifferi e idee colorate: accanto al distrutto palazzo del principe, c'è un frammento di parco; resta un cancello dorato, alberi degni di una foresta che disperdono al suolo manti di grandi foglie gialle che vengono giù come ali di angelo e un ampio, nudo declivio a gradoni offerto alla luce, i cui muri scarrupati e nobili, lavorati dalla pazienza di sapienti scalpellini, ricordano un regale passato barocco.
Questo teschio, questo spettro di giardino, Lydia lo rievoca in periodiche sedute spiritiche, e messi in cerchio gli invitati mano nella mano, resuscita un prence dalle guance paffute e una ancor più paffuta principessa rosea, dal drappeggiato doppiomento che diceva come fosse una delle più ricche signore d'Europa, nutrita tutto l'anno di rosolii e di stollen gonfi di uvetta e cedro candito. Prence e principessa, seguiti da figlioli prosperi e cortigiani devoti, si aggirano tra verzure ben potate, fontane che sussurrano madrigali, simmetrie di pietra che si affiancano nella discesa alternando curve e rette con armonia barocca. Tutto questo è vero fino a che Lydia suona il piffero.
L'ultima seduta spiritica, che veniva ancora covata mentre noi eravamo ospiti, sarà una recita teatrale dell'Agrippina di Daniel Casper von Lohenstein, che potrà realizzarsi perché, tra tanti dolci sonni, il Palatinato è stato mezzo svegliato, sveglicchiato, minacciato, dall'arrivo improvviso di giovani siriani belli e pieni di vita. Questa viva gioventù bruna è stata lestamente acchiappata da Lydia, congiunta alla rosea palatina e indirizzata a recitare. E ancorché schekerata - i maschi vengono vestiti da femmine, Agrippina è un bel bruno, poiché il barocco è barocco, e della lingua non sanno una parola - pare regga bene il colpo (restano da sedare spiritelli erotici sollecitati dallo shock e dalla gioventù e confusi dalla babele di lingue, evocati dal repentino incontro siro-tedesco, ma mamme palatine vegliano).
Le giornate sono di chiaro sole, il cielo è nitido sopra di noi, le nette strade rilucono, non c'è anima viva, gli abitanti son nascosti qua e là, il ristorante accogliente tenuto da garbati giovani ospita solo noi. La casa scricchiola di travi, memore dell'essere stata quella del falegname del principe, e abbraccia paziente ospiti, ricordi e presenze di una vita, di altre case, di altri luoghi; li accoglie tutti in bellezza e grazia, e l'occhio felice incontra a ogni passo oggetti che sussurrano storie. In cucina puoi trovare - per dire, sentite questa - una cassaforte grande come un armadio dove si conserva un servizio di preziose porcellane, una testa di Buddha, tre quadri dipinti per celebrare tre figlie, la ciotola di coccio dove la nonna di Lydia impastava lo stollen.
Tutto cominciò quando Polsonetta chiese la ricetta dello stollen a Lydia, anche per me. Lydia disse: se non vedi non capisci, venite qui. Andammo. Ed è vero: le ricette vanno viste a casa loro. Andammo a novembre, perché lo stollen deve maturare, ci vogliono almeno due settimane prima di mangiarlo; andammo e mettemmo le mani in pasta, triturammo mandorle e cedro, aspettammo che lo stollen maturasse la sua andata in forno riposto in una fresca soffitta grande e bellissima, colma di tutto il passato sopeso della casa, facemmo soste in cui mangiammo squisitamente alla tavola affacciata sul giardino, assaggiammo biscotti di Natale riposti in soffitta, scoprimmo che il padrone di casa costruisce case di bambola e fa ottime creme di zucca, visitammo una chiesa silente in cui suonò Mozart bambino, un museo degli orologi costruito da un architetto disperato, una casa-sacrario dove si celebra un collezionista di Picasso vegliata da un anziano signore in pantofole che ci accolse sorridente quando lo liberammo dalla solitaria sua attesa di un visitatore.
Ricetta, infine!
Dresden Christstollen
Dunque lo stollen ci arriva con un passaparola: la madre di Gemmi era amica di Ria, che era al servizio in casa Vollhard, una grande famiglia di Francoforte. Gemmi fa arrivare la ricetta nelle mani di Lydia. Lydia dirige, Polsonetta e Artemisia mettono le mani in pasta (soffice, profumata).
In grande ciotola (di coccio, marrone, della nonna di Lydia) si mettono 900g di farina00
a fontana (si valuterà alla fine se aggiungerne un poco poco di più); al centro 40g di lievito di birra sbriciolato.
In un pentolino, con1/4 di latte messo su fuoco dolce finché tiepido (non di più) si sciogono
200g di burro e 150g di strutto.
Un cucchiaio raso di sale viene sparso sull'orlo del cratere, lontano dal lievito.
Latte-burro-strutto (anche non del tutto fusi) si aggiungono pian piano al lievito, che viene così sciolto mentre mano a mano si aggiunge farina.
Si aggiungono anche, uno dopo l'altro, 2 rossi d'uovo (tre se uova piccole) e
150g di zucchero sparso sull'impasto e poi amalgamato
in tre o quattro riprese.
Si impasta con un cucchiaio, ma "a un certo punto prendo le mani" dice Lydia, e si trasferisce tutto sul piano di lavoro continuando a lavorare la pasta, molto piacevole da maneggiare così liscia, setosa, che lascia libere le dita. Poi, come rito, si assaggia per vedere se ci vuole altro zucchero.
Quando la pasta è ben lavorata, si decide se fare un enorme stollen o due grossi stollen: Lydia opta per due. La pasta si divide in due pesandola, le due palle vanno dentro due ciotole coperte da un lino messe in luogo tiepido per un'ora e mezzo.
Si triturano grossolanamente 200g di mandorle non sbucciate, e molto finemente
10g di mandorle amare; si triturano finemente 125g di cedro candito; si lavano e si asciugnano bene
500g di uvetta sultanina, si infarinano. Si divide tutto in due esatte porzioni.
Si versano questi ingredienti nelle due ciotole con la pasta e si impasta per includerli lavorando e rilavorando e spingendo e conficcando per convincerli a star dentro. Bisogna evitare che cuocendo e crescendo la pasta, vengano sputati fuori (accettabile che ciò avvenga con tre acini di uvetta per stollen, non di più).
Alla fine di questo lavorio, dare allo stollen la forma di una raccolta, compatta pagnottina ovale.
Metterli a riposare in una teglia imburrata, coperti di stagnola. Devono stare stare circa 12 ore al fresco (nel Palatinato, in una soffitta a 8/10 gradi).
Passate le 12 ore, si lasciano riscaldare fino a temperatura ambiente: ci vorrà un po' più di un'ora.
Si infornano tenendoli a giusta distanza: crescono. Forno statico a 180°; ci vorrà circa un'ora e un quarto. Controllarli: li abbiamo coperti, per non farli scurire, dopo mezz'ora circa. Dopo 50' inziare a controllare la cottura con uno spiedino.
Una volta cotti si lasciano raffreddare. Lydia per ciascuno prepara, su una griglia, un paio di fogli sovrapposti di alluminio resistente e ce li poggia su.
Intanto ha fatto a sciogliere 125g di burro: va spennellato accuratamente sugli stollen; poi si spolverizzano di zucchero a velo fino a imbiancarli.
Farli ben raffreddare portandoli a temperatura ambiente, racchiuderli con cura in fogli di alluminio, datarli. Sì, datarli con un cartellino: è importante, dice Lydia. Certo, specie se ne fai dodici, come dovrebbe fare lei, che aspetta per Natale tre figlie con fidanzati, mariti, figli, e per ciò verranno anche spostati mobili da una stanza all'altra. Per fare posto, per fare festa, anche calando divani giù dalla finestra, infilando un tavolo in cantina, tirandone fuori un altro dalla soffitta; messi ovunque, rami di pino, candele rosse.
Una volta ben incartati, riporli al fresco tra gli 8 e i 10°; soffitta nel Palatinato, frigo per noi meridionali.
Farli maturare almeno per due settimane.
Dopo l'apertura dell'involto, se non vengono divorati subito, dovranno stare a 10°; in mancanza, daccapo in frigo.
***
Nel menu di Dicembre 2016. Venezia. La cena dell'ultimo giorno dell'anno.
Lo stollen venne mangiato a Venezia la sera dell'ultimo dell'anno. Era arrivato impacchettato e datato; fu svolto, spennellato di nuovo di burro e nuovamente cosparso di zucchero a velo. E' molto importante l'affinarlo, se così si può dire, ovvero va trattato con la stessa cura di un formaggio: stagionatura, temperature. L'ho un po' tenuto sul davanzale - temperature molto basse - poi in frigo - idem; doveva stare a 18° - non sapevo dove trovarli - e poi a temperatura ambiente; forse era un po' irrigidito quando lo abbiamo mangiato la sera dell'ultimo dell'anno; il giorno dopo, sentito un po' di calduccio, era migliore. Comunque, indimenticabili ricetta ed esecuzione.
3 commenti:
Stollen magnifixi, ma sopeattutro gran bel racconto natalizio :)
GRAZIE!!!
Con gli accademici si sogna sempre ad occhi aperti: si visitano case piene di fascino e ci si accomoda a tavole elegantemente imbandite.
Conserverò' la ricetta dello stollen per il prossimo anno. Grazie.
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