giovedì 5 maggio 2011

SENIGALLIA. ULIASSI VALE IL VIAGGIO



Abbiamo un primaverile we di libertà. Decidiamo di fare un giretto, l'occhio cade sulle Marche. Perchè non provare uno dei due famosi ristoranti di Senigallia? La sera andremo a dormire a San Leo, da poco eletto uno dei borghi più belli d'Italia. Saremo confortati dalle pietre antiche, dalle rocce fantastiche e turrite come nubi, dalla rarità dei turisti, dal silenzio della sera.

Optiamo per Uliassi, non so perché, ma un perchè c'è, fatto di sensazioni; diciamo che prevale l'intuito. E il fatto che davanti al ristorante non passi la strada, ma ci siano il mare e la spiaggia, che speriamo primaverili come di fatto saranno, freschi, celesti, pieni di conchiglie portate dalle mareggiate, con poche persone.

Senigallia è un bel casino, come la costa - tutta a quanto pare - dell'Adriatico. Case e case e case parecchio brutte e qui a Senigallia una dispersa fisionomia antica, giustiziata anche da un terremoto relativamente recente; passiamo tra casette liberty a due piani (la ricostruzione), per altro sepolte dalle nuove disordinate costruzioni e approdiamo in un lungo mare cosparso di casotti ora in quiete, pronti a disseminare ombrelloni e bagnanti ovunque. Uno di questi è il ristorante che cerchiamo, tutto bianco, tutto di legno apparente, con un certo amore per Boris Sipek e Gaetano Pesce e i libri di cucina e i convex.

Le ginocchia soffriranno contro i nodi del tavolo da due, di giunco, ma tre ore passeranno senza alcuna noia tra cordialità, piatti amorevoli e pieni di fantasia e azzurri di una luce presente ma non abbagliante. Lo chef è spesso in sala e spesso cordialmente accompagna e presenta il piatto aggiungendo qualche nota illuminante; con lui una bella dama gentile che scopro essere la sorella.

All'inizio sono presa di sorpresa da una lunga pinza che mi viene messa sotto il naso. Intuisco che debbo acchiappare, e prendo un wafer di fois gras con le nocciole, accompagnato da un sottile bicchierino con kir royal gelato. Iniziano le associazioni, che saranno spesso presenti durante tutto questo pasto, non so perchè segnato da immagini e memorie che hanno continuato ad affiorare. Torna alla mente la Borgogna, le sue dolcezze, la rinuncia al cassis, una delle poche cose su cui non ho fatto man bassa, la prospettiva di tornare a cucinare gougeres. Ma il wafer è una presenza netta e attrattiva e mi riporta nella candida stanza dalle grandi vetrate sulla spiaggia.

Ecco i pani: con il nero di seppia, con il burro, con il lardo alla marchigiana, con le noci, e poi le cialde. Sono pani molto leggeri, soavissimi dentro e svanenti, tutti croste delicatamente croccanti. Il mio gusto meridionale trova rispondenza in quello al lardo, più consistente, e nelle vitree cialde. I pani erano stati preceduti da due lunghi grissini, alle cipolle e al parmigiano di bontà apprezzabile ma più soprammobili che rapimenti.


Arriva una piccola zuppa di vongole, appena tiepida, che avrei voluto con qualche grado di febbre in più, l'unico piatto che volasse basso (per me). Il brodo viene versato a tavola con una teiera, e subito la mente corre a Copenhagen, dove non ho fatto altro che vedere questo traffico di bricchi che arrivano con creme e brodi. Ma non sarà l'unica volta che andrò a Nord con la fantasia.

Con le canocchie al succo di canocchie, crema di limone gelata (saranno molti questi contrappunti di gelo nel caldo o tipeido dei piatti) e aglio da taglio inizio a essere tutta contenta. Buone buonissime, e belle nel loro tenero viola sposato al verde del prezzemolo e alla cremosità giallina del limone.

Lo chef le accompagna personalmente e con un sorriso memore ci dice che ricorda quando ragazzino apprezzava l'unione tra canocchie e crack! il croccante prezzemolo. Qui capisco perché mi piacerà: cucina di territorio, cucina locale vuole dire pensare al territorio, sognare la località, non aderire canonicamente a supposte norme o regole o chilometri dettati da una qualche ortodossia che gode nella condanna. Anche Savinio - ricordo, altro ricordo - diceva che non faceva altro che dipingere quanto aveva sognato quando era bambino.

Abbiamo il piacere di esprimere allo chef la nostra gioia; ammiro i fianchi violetti profondamente sforbiciati delle canocchie e ricordo le mie lotte veneziane con le canocie (lì si chiamano così e se ne fa largo uso): bisogna avere coraggio e affondare la lama.

Arrivamo poi le seppie giovani arrostite “sporche” - ovvero senza pulirle del loro velo nero, che si arriccia in cottura e diventa a tratti lieve carboncino saporitissimo - granita di ricci di mare e erbe selvatiche con i loro picchi aromatici, di cui una con certe coste rosse sanguigne che è un piacere vederla. Anche qui abbiamo un commento dello chef: è ancora contento di quando ha capito che non bisognava ridurre le seppie come bianche e lisce e insulse "uova sode".

Poi cipolla rossa croccante, zuppetta di ciliegie sul fondo e neve di mare a spumeggiare gelida, fatta con acqua di ostriche. Sulla neve un fiorellino di rosmarino: quando affondo il naso nel piatto, mi salta dentro le narici con il suo profumo pungente.

Qui da qualche parte passa pure un magnifico polputo dolce baccalà arrosto e sugo di baccalà alla griglia, ma mi sono buttata sul piatto dimentica della foto.

Poi un tocco di pane , una scarpetta di brodetto. Saporitissima, intensa, gustosa.

Quindi capesante tandoori, zenzero e pompelmo rosa.

Quindi green, un piatto nuovo, se non erro. Bucce di fave spremute, fave, mela, topinambur, ravanelli che occhieggiano rossi sotto il verde. Qui il ricordo non può che andare al Menu Green di Geranium, e una certa vicinanza erbacea mi colpisce. Mi chiedo se questo piatto avrebbe potuto essere lì, tra quei praticelli da elfo.

Linguine "Antonio Mattei" con granceola, lime, menta e cocco. Ancora lo chef che racconta: ricordo di un viaggio in Polinesia dove pare si desse alla caccia di granchi.

Poi la beccaccia alla marchigiana con le sue interiora (essenziali). Qui arrivano i ricordi di famiglia. L'amore per la caccia suo, dei babbi e dei nonni qui nei dintorni, la rinuncia attuale, l'attesa di pernici scozzesi certificate, i menu - caccia che si possono ordinare (fantasie di ritorni autunnali). Ancora un'associazione, questa volta con Igles Corelli e il suo modo magnifico di cucinare la cacciagione pure fondato su fantasie e ricordi di bambino "da valle".

Quindi zuppa di frutto della passione, con yogurt in tre modi: gelato, in granella e in mousse, pepe rosa e banana caramellata. Ottimo dolce.

Brulée al caffé, bomboloncino caldo, cioccolato da far sciogliere in bocca.

Vale il viaggio.



8 commenti:

Anonimo ha detto...

Merita, merita e lo dico da marchigiana che abita proprio lì vicino ;-)
Se poi avessi un'altra occasione per ritornare nelle Marche, poco lontano da lì c'è La Madonnina del Pescatore anche lei tutta da provare :-)
Cri

Anonimo ha detto...

ma quanto avete speso? perchè sarà pure questa apoteosi di sapori , senza dubbio merita, ma a meno che non ti abbia riconosciuto, il conto deve esser stato salato

isolina ha detto...

Mi ha proprio fatto venir voglia. Anch'io ero andata alla Madonnina. Divertentissimo e simpatico Cedroni. Ma trattasi di molto anni fa

artemisia comina ha detto...

ecco, dicevo che merita perché pur costoso vale la spesa, cosa che spesso non càpita (e spesso non càpita con i modesti di costo e offerta, che se ne sommi due o al massimo tre ti ritrovi che hai pagato quanto da Uliassi una volta sola, e allora ci vai più sereno).

Cedroni alla prossima; è che Senigallia è un po' faticosa, e credo abbia bisogno di tutta la gloria di una stagione come la primavera per non nuocere.

Francesca ha detto...

sei stata qui e leggo solo ora..me tapina. nina.

artemisia comina ha detto...

ho delle "tue" conchiglie ; )))

Anonimo ha detto...

come ti sono sembrati la "cipolla", la "scarpetta" e "green"?? dalle foto non sembrano allettanti...

artemisia comina ha detto...

buono tutto, per questo vale il viaggio!

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