giovedì 28 febbraio 2019

Monografie. Officina riparazioni


A volte il caso, altre la necessità creano cibi che non valgono le calorie che vi donano e tuttavia non meritano di prendere la via del secchio: è solo una mollezza di troppo, un fianco che cede, una tostaggine, un'insulsaggine. Qui si parla di radicali trasformazioni che possono subire, tra errori e deviazioni, fino ad approdare degnamente alla tavola. Il tema si allarga agli avanzi: un pezzo di questo, una tazza di quello, che ci fo? Ci sono anche ricette che seguite alla lettera lasciano delusi o indifferenti, eppure la suggestione che ci portò a farle resta; modifiche, rilanci, una maggiore compresione le resero degne.

Sotto ne vedete le facce, come fosse un album con le foto di famiglia. C'è di tutto, e varia assai la storia di ciascuna di loro: chi attende la salvezza, chi è in transizione, chi ha trovato soluzioni ottime.

Non ci sono link qui, ma basta seguire il tag Officina Riparazioni e le trovate.
 

Due cene all'insegna di Officina Riparazioni

Febbraio 2011. La cena della débâcle


Il menu prevedeva piatti leggeri ruotanti intorno a un piattone centrale che, se mangiabile, avrebbe avuto l'invadenza del piatto unico. Era la baekeoffa, carni grasse adatte alla lunga cottura, di manzo, maiale, agnello, lungamente marinate in vino d'Alsazia con molte erbe e verdure, poi fatte cuocere infinitamente in forno a fuoco basso, sigillato. Su quell'infinitamente cadde l'asino. Le tre ore previste risultarono nulla per l'enorme riottoso malloppo - c'era anche una coda di manzo, oltre tutto. Deposto con sforzo in tavola, l'immane peso subito rivelò sotto l'argenteo, lacerato sarcofago un contenuto pressoché vivo, e venne velocemente riportato in cucina, avendo deposto appena un frammento in ogni piatto di quei pochi pezzi che mostrando un po' di pietà stavano virando verso il cotto.
La cosa curiosa su cui ho avuto modo di stupirmi e che rivelo spudoratamente è che io, la cuoca, non ho sentito - capperi! - imbarazzo alcuno: le guance non arrossavano, il cuore non si contraeva, le ginocchia non tremavano. Piuttosto ho visto con odio e sollievo sparire dalla vista il pentolone, e mi sono subito rasserenata pensando che c'era abbondanza di formaggi francesi, cui aveva provveduto Nunchesto: non c'era rischio si morisse di fame. Solo ho sentito la preoccupazione di cosa farne, dell'orrida massa. Come fronteggiarla in due, ammesso che mai cuocesse, la scellerata? La campagnola retriva che è in me, che coltivo con rispetto perchè mi dice che non si butta nulla, e così come non butto gli avanzi non getto via nemmeno lei, già si preoccupava della fine di quel ben di dio. Solo questo pensiero oscurava la mia serenità. Mi sono accorta che non perdo la faccia: ce l'ho appiccicata sull'osso come una patella, restava lì nonostante le occhiate di fuoco di Nunchesto mi raggiungessero dall'altra parte del tavolo come la pioggia dell'Apocalisse. Lo stesso Nunchesto che usciti gli ospiti ha fatto il gesto del dito a gancio picchiato sulla fronte, facendo uscire dalle labbra contatte la parola daube (un certo stracotto francese che una volta o due mi riuscì bene e che spererebbe di rivedere, invece di tutte queste sperimentazioni) e qualcosa del tipo: dobbiamo loro presto un'altra cena.
Càpita che sulla nostra tavola compaia rarissimamente due volte lo stesso piatto, poichè il mondo è vasto, la curiosità alta e la possibilità di mangiare a quattro palmenti ridotta. Non restano che gli ospiti, cui dedicare le esplorazioni di cui non posso fare a meno. O la va o la spacca, quindi, e benchè l'espressione di Nunchesto suggerisse che tali débâcle accadono continuamente, io invece vi dico che così plateale è la prima volta che mi succede. Altre volte - non infinite, checchè ne dica la vipera - un piatto marginale è sparito in cucina senza parere, e l'insieme non ne ha risentito. Ma questa volta il fulmine si è abbattuto sul supposto piatto centrale, e quindi... Per i curiosi: la bestia è stata cotta e ricotta e infine domata e un po' mangiata, ma oramai senza equanimità di giudizio; il resto è sparito nel freezer.
Gli ospiti? Non hanno fatto una piega. All'altezza della situazione, insomma. Ma i baffi di Alfredo (l'Alfredo che con Ida che ci ha accolto così, per dire) sono diventati man mano più malinconici: la prossima sarà una cena tradizionale (vedremo cosa mi verrà in mente), non bisogna strapazzarlo con sperimentazioni. Per tali motivi, questa cena va in Officina riparazioni dove si narra di disatri accaduti, mancati, recuperati.
Voglio dire due parole sui disastri. Sono il sale della cucina: non sono d'accordo su chi poi si uccide, temere il peggio dà al lavoro quel certo non so che che non deve mancare. Da quando tengo questo blog, dal dicembre 2006, questo è il primo vero disastro (lo dico per la reputazione, poiché va bene la patella, ma...

*** 

Marzo 2009. La cena del disastro pilaf, con elogio della conversazione.


Un bel disastro, cui parteciparono due amici, una coppia che venne a cena da noi; riassumo sotto il nome di Disatro Pilaf. E' pure l'occasione per tessere l'elogio della conversazione ed evocare un soufflé dolce davvero ben riuscito, ma forse irriproducibile. Menu: Crostini di fegato, Anatra all'anice stellato, Riso pilaf la limone (esploso), Sformato di carciofi e piselli, Soufflé di cioccolato con salsa di arance. Per questi meriti, la cena acquisice il tag  Officina riparazioni.
Come sempre vado di fretta. Ammannisco un'anatra all'anice stellato agli ospiti solerti, che trasgredendo le cincischianti mollezze romane che sempre inducono al ritardo sono da noi a piatti in corso d'opera. Gli sbatto davanti dei crostini di fegato. Mando al fronte Nunchesto, che comunque non vede l'ora di versare vino. Ficco nel forno ancora fumante un piatto di vetro blu sul quale ho rovesciato in furia il previsto riso pilaf al limone. Avvio il microonde (il mio forno è tradizionale e micronde in tutt'uno) per dare una scaldatina; chiudo, mi giro, sento un clicchete. Poche storie: tutto è fin troppo chiaro. Dò un'occhiata e vedo il piatto trasfomato in acuminati pugnali, come se una banda di feroci saladini ammannisse bocconi di grondante riso su minacciose scimitarre. Richiudo il forno. Estremi rimedi: non faccio una piega. Fronteggio a piè fermo il fatto che il dolce non è concluso e che bisogna temporeggiare: si tratta di un soufflè di cioccolato, che va ficcato nel disastrato forno 20' prima di venir mangiato.
Mi soccorre l'ospite. La foga ardente della sua conversazione si espande in lungo e in largo, riempiendo i vuoti di tempo e di cibo. La sedia viene furiosamente cavalcata, il tappeto tormentato e ritorto, gli animi distesi e distratti. Arpeggia anatemi, sempre nutrienti. La vita universitaria italiana presta così bene il fianco. Sullo sfondo fa baluginare storie di convivialità dotte e lontane, vissute in anfratti nordici dove sverna in sabbatico. Lì consessi di studiosi, buttata la carta stagnola delle Discipline per avventarsi sull'acciaio dei Problemi (splendente metafora haimè non mia: sto parafrasando un tale del quale mi sfugge il nome) avviano fecondi confronti durante austere ma intellettualmente proficue convivialità.
La foga dell'amico era contrappuntata dalla malizia della paziente compagna, che insinuava con accenti toscani aver sentito chiedere che si passasse il sale. L'introduzione di toni sfumati non faceva che accrescere la seduzione di tutti quei temi e situazioni appassionatamente evocati e insieme l'invidia e la partecipazione mia e di Nunchesto. Per gareggiare con quelle iperboree tavole rotonde, noi ci si buttava gioiosamente contro i flutti del discorso dell'amico, tentando a nostra volta qualche spruzzo, o gocciolina.
In breve, io al pilaf non ci pensavo più; si mangiava invece uno sformatino di carciofi e piselli non eccelso che la penuria faceva forse apprezzare, ma chi - tranne il critico Nunchesto, che poscia ha battuto il tasto più volte - osava lamentarsi?
E il soufflé, direte voi, se appena appena state simpatizzando con la cuoca? Be', fu ammannito. Tra un'ondata e l'altra, gridando ancora dalla cucina un parere non so più se sul rapporto tra Harun-el-Rashid, Carlo Magno e Bisanzio, oppure sulle cause della morte dell'elefante che il primo regalò al secondo, oppure sulla questione: l'uomo è in grado di sviluppare le potenzialità del suo cervelluccio alla velocità con la quale modifica l'ambiente? E' apprendista stregone, degno figlio di Gaia, o perfino intelligente? Questo, tanto per darvi l'idea, ma non vi dico cosa siamo stati in grado di accumulare, fino all'ultimo momento, ancora infilando i cappotti e baciandoci sulla porta...
Insomma, per tornare al Disastro, vado in cucina, infilo marzialmente un paio di guanti di gomma, afferro la teglia in cui cosse l'anatra, marcio verso il forno, lo apro, prendo con mano ferma un tagliente frammento via l'altro, li schiaffo nella teglia, abbranco a manciate e schiaffoni il riso, ripulisco, sprofondo la recuperata monnezza nel secchio; mi volgo al soufflè, monto i bianchi d'uovo, mescolo - qui c'è il tocco umano: combatto un cedimento e stringo i denti - verso nello stampo, metto in forno!
Torno alle tempeste intorno al tavolo, che ora mi sembrano tranquillo lago con rispecchiata luna, e mi godo l'accento milanese dell'amico. Che è tanto più accentuato quanto più è determinato il suo esilio da quelle regioni, che tuttavia non manca mai di evocare, come porto che continua a sfiorare con la mente, al quale sempre potrebbe approdare e sempre sfugge. Amico acquatico senz'altro, infatti non ha radici, ma chiglia, e giustamente si tiene la preziosa ancora della sua milanesità. La tosca compagna, con cui ha un bel bambino che forse ancora non si sa se ha chiglia o radici, coltiva anche per lui terreni erbosi e alberati, perchè abbia qualche carota e qualche mela da ficcarsi nella bisaccia quando prende il mare.
Si, ma il soufflé al cioccolato? Il soufflè ci mise del suo, crescendo con una lentezza che avrebbe turbato un animo meno temprato; ma io quella sera, io stessa, ero passata dalla carta stagnola al duro acciaio, e tutta rilucente me ne fregavo, continuando a chiacchierare perdutamente.
Però alla fine, diciamolo, era parecchio buono; crosticina croccante in superficie, calde e cedevoli mollezze interne, una squisitezza... Perchè non dò la ricetta? Debbo verificare il tempo che stette in forno, non so più quanto: non posso dirvi 20 minuti e farvi aspettare due ore: se non aveste un ospite come il mio, che cavolo fareste? Pensate a quelli che aspettano il piatto successivo come collegiali tristi alla mensa, quelli che quando hanno il cibo davanti, mettono giù la testa e ingollano, e quando hanno finito, tirano su la testa e vi guardano. Cosa fareste? Vi vorrei vedere!


I piatti con il tag Officina Riparazioni; hanno un album dedicato su Facebook, con i relativi link:











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