domenica 29 aprile 2007

ROMA. VILLA GIULIA



























da Artemisia Comina

Che fare a Roma in una soleggiata mattina di festa? Come sorseggiare deliziose aure primaverili senza pagarla cara tra folle e puzze? Dove trovare un caffé in luogo ameno? Propongo di infilarsi in un museo con giardino.

Magnifico e un po’ defilato, come quello di Villa Giulia. Gli etruschi? Chi erano mai? I visitatori saranno pochi.

Villa Giulia: Giulio III, papa ancora rinascimentale, anche se la Riforma gli soffia sul collo. Costruisce una villa splendida che lo fa benemerito tanto quanto fosse divenuto santo. Inseguendo il sogno della villa classica, tra giardini interni sia quadrati e limpidi, sia profondi, aggrottati e acquatici. E poi coltivata campagna intorno: qui non ci furono giardini all’italiana, ma contorno di vigne e ordinati orti.
Alla villa si arrivava via Tevere, in barca. Aveva un approdo. Feste e canti.
Gli orti e le vigne sono scomparsi, ma divinità benevole e probabilmente pagane, vista la memoria devota che questo papa ebbe per loro, hanno conservato alla villa un contesto di alberi e verde che si vede dalle finestre a grande consolazione del visitatore.

Che resta dei giardini? Ciò che una pubblica amministrazione può tollerare. Grazie a dio, qui non ne ha fatto parcheggio di dipendenti, come ad esempio in palazzo Venezia (Giove, ti avanza un bruciante fulmine?). Anzi, bontà loro, hanno messo lussureggianti azalee, mentre le conifere si producono in quel miracolo primaverile che sono i loro pennacchietti verde tenero, che giovane e chiaro splende sul corpo cupo della mamma albero. Ricordo Picea, la piccola conifera così confidenzialmente chiamata, che per lungo tempo fu sul nostro terrazzo, e che si fece voler bene proprio per questo impennacchiarsi commovente ad ogni primavera.

Un’incongrua aiuola ottocentesca, quadrata e abitata da rose tea che stanno tutte rigidamente in fiore sui loro steli dritti e sgraziati fa da cornice a un busto baffuto, suppongo di Castellani o di altro fondatore del museo. Girato al largo, come si vede da assenza di foto.

Un fontanella, abitata da pesci rossi, tartarughe e piante acquatiche.

Un caffé, il Caffé dell'Arancera, una scatola vetrata non molto bella che però è magnificamente piazzata e con un terrazzo esterno sotto gli alberi, che quando siamo arrivati noi stavano allestendo per un ricevimento, i cui ospiti, attesi da tre camerieri biancovestiti, abbiamo poi visto arrivare alla spicciolata in svolazzanti abiti da cerimonia e gran cravatte lucenti e rigide, portando pacchi (cibo?).

Allora, ‘sto caffé? Non eravamo arrivati fin qui nella speranza di una sosta piacevole? Eh, sì. Però c’è qualcosa che non va. I visitatori del museo sono solo al banco (sbirciatina all’offerta: non viene nessuna voglia) e in un paio di tavolini davanti al banco. I tavoli dentro la scatola sono deserti, mentre il terrazzo esterno sembrerebbe dedicato al solo ricevimento. Si sposa la figlia del direttore del museo? Si affitta lo spazio? In ogni caso, non è per noi.

Due parole sui caffé dei musei a Roma.
Nel passato ricordo nefandezze, tipo anfratti destinati alla caffetteria occupati da bivacchi dei custodi. Finito ciò, si è tentato di farne di suggestivi. E ci si riuscirebbe senz’altro. Sul grande terrazzo dei Palazzi Capitolini con splendida vista, alle Scuderie del Quirinale con un finestrone che dà sulla fontana dei dioscuri, ci sono caffé che sono, sarebbero magnifici. Così belli da andare apposta al museo solo per prendere lì un tè o un cappuccino, o magari anche pranzarvi, come sarebbe possibile. Se non che, spesso sono gestiti senza garbo né competenza.
Venerdì scorso eravamo alle Scuderie per una mostra (Dürer; vale la pena, non fosse che per vedere le incisioni, irriproducibili e bellissime). Il venerdì sera è un buon momento di visita: poche persone, pace. Entriamo nel caffé. E’ già con un’aria di disarmo, benché manchi tempo alla chiusura. Al centro della stanza una fanciulla secca, appoggiata a una scopa, sta gridando come un’aquila, il fare stracco ma la voce parecchio acuta. Il pur gentile barista non riesce a starci dietro, distratto da quella che chiede imperativamente attenzione per qualche suo privato problema dal quale mi sono concessa di astrarmi. Di sedersi, con l’aquila in azione, non se ne parlava proprio. L’occhio mi cade sulle torte, tutto ciò che resta di una saccheggiata vetrina. Rilucono gelatine dure come lacca su resti di arida torta. Haimé.

Allora non ci si deve andare in questi caffè? Ma no, ma no, facciamoci coraggio, speriamo nel meglio e andiamo comunque. Sono così belli. E poi, male che vada, ci sono le ville, gli affreschi, le azalee. E la riproduzione del tempio etrusco, e le statue che se ne stanno tranquille in giardino, lontane dai perfidi custodi che chiacchierano fittamente di turni e ti guardano storto quando passi. Guardate che belle quelle dei signori etruschi, di scuro e corroso tufo, i signori sdraiati con la coppa in mano. Questi del giardino di Villa Giulia sono un po’ severi, specie quello che se ne sta fianco a fianco con le bianche teste romane, la foto che preferisco: lo scuro etrusco dal severo naso in aria, i bianchi romani bacchettoni. Così diversi.

E poi guardate quella dea. Quella con il pupo che succhia al seno; e quell’altra con nientemeno che quattro pupi, che sembrano sfilatini acchiocciolati, ciriole croccanti offerte da una madre fornaia. La Mater Matuta, la mamma della Madonna; lo vedete che è tale e quale, anche se le nostre censure non ce l’hanno fatta gran che conoscere. Anche la Mater Matuta non aveva marito, o ne aveva uno molto più piccolo di lei.

La stessa dea la ritroviamo molto giovane, bella, patetica, riccioluta, dentro il museo. Da uno dei templi di Pyrgi, dedicato a Leucotea, dea del mare e delle acque. Vedete quella testa romantica, languida, piena di vento. La Mater Matuta si trasforma, diventa un'altra, eppure resta sempre lei.

A Pyrgi c’era anche un altro tempio, con un frontone sorprendente. Sorprendente di dinamica bellezza e potenza, e per la storia che racconta. Un feroce eroe addenta il cranio e sugge il cervello del nemico. Si sono reciprocamente feriti a morte. Dietro di loro Atena, che stava portando al mordente un unguento che gli avrebbe ridato la vita, schifata dalla sua ferocia si ritrae. La Tebaide, Stazio. La cui storia ispira Dante per il suo conte Ugolino. Che accidenti ci fa una storia simile su un frontone di tempio?

Pyrgi, il porto di Cerveteri, oggi Santa Severa. Consiglio: a primavera, andate per gite e prati e fratte in tutta la zona etrusca a nord di Roma. Piccoli paesi bellissimi, crochi e colchici, memorie di un popolo molto simpatico, colore dorato dei tufi.

Il magnifico Apollo di Veio è in restauro, e lo si vede da vicino nel ninfeo, dove c’è il laboratorio in cui se ne stanno occupando. Speriamo bene. Il sarcofago degli sposi è stato vittima di uno scempio: infilato in una teca orripilante di vetri e marmi, nascosto in una stanzetta; non lo si può più vedere se non obnubilato da orrendi riflessi, solo solo in questa nuova tomba. Sembra Biancaneve in attesa di un prence che la liberi con un bacio. Il sovrintendente, il direttore di museo, il chiunque sia stato dovrebbe essere frustato a chiappe nude con fasci di rami di buganvillea. A lungo. Molte stanze del museo sono chiuse. Ricordi di visite lontane, ricchissime, nel vecchio museo non tormentato da riallestimenti.

Caffè dell'Aranciera
Piazzale di Villa Giulia, 9
Tel. 06326512040
Dal martedì al venerdì dalle 08.00 alle 17.30, sabato e domenica dalle 09.00
Chiuso il lunedì

sabato 28 aprile 2007

Panini alla panna. Con uvetta ed eba cipollina, con salvia e pepe verde.


Siamo nella raccolta Pani e Lieviti, che include anche torte salate lievitate e crespelle: Pani e focacce; Focacce e pizze condite; Panini, baghels, blinis, gougere, lussekatter; Piadine, pani piatti; Non uzbeki; Brioche russe; Lieviti Farciti; Torte salate. Lievitate; Torte salate. Pizze focacce e tielle di scarolaCrêpes, crespelle, blinis.

Di Artemisia Comina

Che avrebbero questi panini da essere proposti al mondo? Niente di che. Solo la constatazione che la panna li rende duraturi; dopo un paio di giorni, sono ancora morbidi. Può far comodo. E poi li potete aromatizzare come vi pare. Nel menu di Aprile 2007. La cena della genovese.

200g farina00, 100g fioretto, 200 manitoba, 200g panna fresca, 100g acqua calda, una bustina di lievito disidratato, un cucchiaino di malto, 30g di sale.

Far l’impasto, farlo raddoppiare lievitando in luogo tiepido.

Dividerlo in due, stenderlo in due ovali.

Su uno dieci foglie di salvia triturate e fritte in una piccola noce di burro, un pizzico di grani di pepe verde.

Sull’altro una cipollina fresca a fettine, un cucchiaio di uvetta di Corinto.

Arrotolare i due ovali, regolarizzarli, tagliarli a fette in modo da ottenere sei parti in ciascuno.

Arrotondare a pallina le parti, badando che il ripieno non esca.

Lasciar lievitare.

Pennellare con la panna.

Forno a 200° per 20-25’.

 



Pizze fritte, pizzelle, montanarine


Siamo in due raccolte.

Pani e Lieviti, che include anche torte salate lievitate e crespelle: Pani e focacce; Focacce e pizze condite; Panini, baghels, blinis, gougere, lussekatter; Piadine, pani piatti; Non uzbeki; Brioche russe; Lieviti Farciti; Torte salate. Lievitate; Torte salate. Pizze focacce e tielle di scarolaCrêpes, crespelle, blinis.

Ricette napoletane - in senso sia stretto che lato - che AAA ha prodotto negli anni: Primi piatti; Pizze focacce e tielle di scarola; Cose dolci; Lieviti, torte salate, pizze; Menu; e, in periferia, Ricette della Valle di Comino.

da Artemisia Comina

Nel menu di Aprile 2007. La cena della genovese. Nel menu di Febbraio 2010. La cena del sartù. Nel menu di Ottobre 2011. La cena delle tielle; aver emulsionato il sugo lo ha reso arancione - non chiedetemi perché, ma ogni volta che i pomodori, cotti con olio d'oliva, aglio e peperoncino, vengono passati nel frullatore del Bimby. Sul tavolo di Dicembre 2011. Una cena di Natale con molti parenti. Fatte un po' di corsa, e si sentiva; ma c'era una novità interessante: la pasta avvolta intorno a cimette di broccolo romano sbollentate al dente, dove il trovare la croccante freschezza della verdura entro l'impasto era assai gradevole. Da rifare meglio. Per il menu di Novembre 2015. La cena dei ritrovati amici. Con soli 10g di lievito: hanno lievitato dalla mattina alle 11,00 alla sera alle 20,00. Nel menu di Dicembre 2017. Veneziani a Roma e candeline cinesi. Sul tavolo di Gennaio 2018. Quasi una Befana.

300g farina00, 200g di farina manitoba, 200g di latte, 100g di acqua, 30g di olio e.v. d'oliva, un cucchiaino di zucchero, 30g di sale, una bustina di lievito disidratato o un cubetto di lievito.

Sciogliere il lievito nei liquidi tiepidi, insieme allo zucchero.

Mescolare alle farine insieme al sale.

Fare un impasto molto morbido, eventualmente aggiungere acqua.

Farlo lievitare fino al raddoppio.

Divedere l'impasto in dieci pezzi, arrotondarli, stenderli con le mani.

Far scaldare dell'olio d'oliva profondo in una padella di ferro.

Friggere le pizzette una ad una e scolarle su della carta.

Sugo: la superba passata estiva, con un lieve soffritto olio d'oliva, aglio e un nonnulla di peperoncino.

Condirle con una cucchiaiata di sugo di pomodoro, una spruzzata di formaggio grattugiato (io ho usato parmigiano, si dovrà trovare qualcosa di più meridionale; caciocavallo?), un paio di foglie di basilico.

Di corsa a tavola.









Aprile. La cena della genovese.



Aprile 2007. La cena della genovese. Mi cimento con la Genovese. E’ riuscita. Commozione. Ci faccio un invito. Acquisiti gli indispensabili zitoni Setaro, medito. Gli ospiti portano cibo. Leccardo arriva con due teglie –  è munifico – di un piatto verdureo che ribattezziamo Vignarola sformata, con fave, carciofi, piselli, lattuga, uovo. A ogni boccone si grida: c’è anche la zucca, c'è questo, c'è quello! Chi conosce Leccardo sa di che parlo. Faccio le Pizze fritte: pasta del pane un po’ morbida, friggere, sugo di pomodoro, formaggio grattugiato, basilico. Mai fatte in vita mia. Speriamo bene. Con due aiutanti in cucina – chi le condisce, chi le porta in tavola – è fatta. Miracolo. Riescono anche quelle. Ho provato Panini di due tipi, entrambi con un po’ di farina gialla: gli uni con cipollina fresca e uvetta di Corinto, gli altri con salvia fritta e pepe verde. C'è un gran piatto di Formaggi – italiani questa volta, le pezzature giganteggiano – chi con il tartufo, chi affinato nel vino. Polsonetta Aprutina porta una Cheese cake di Dolce Roma, una delle poche pasticcerie romane che gode di un certo generale consenso, anche se è più forno che pasticceria, e se alcuni dolcetti da me acquistati non furono memorabili. La chesee cake è buona. Polsonetta dice che affermano di non farla con philadelphia (ci mancherebbe) ma che fanno venire la ricotta dall'Austria (?). Viene accompagnata da un Recioto di Soave sul quale Nunchesto non dice nulla di più che un: va beh, con dibattiti tra lui e Pomaurea sull’opportunità di far entrare nella tradizione dei Recioti l'uvaggio bianco. Molti brindisi. C’è anche un compleanno ancora nell’aria. Nunchesto propone un Bourgogne Irancy 2004, e un Margaux Chateau Du Tertre 2002, un Bodeuaux che il Nunche guarda con amore; Cornucopio Canturino porta un Brunello di Montalcino Conte Ottavio Piccolomini d’Aragona 1999. Riassumendo il menu: Genovese, Pizze fritte, Vignarola sformata, Panini con cipollotti e uvetta di Corinto, con salvia e pepe verde, Formaggi, Cheese cake.

Pizze fritte

Genovese di Ester

Vignarola sformata

Panini alla panna. Con uvetta ed eba cipollina, con salvia e pepe verde 

 Formaggi

 Cheese cake




martedì 24 aprile 2007

EMILIA ROMAGNA. VALLI DI OSTELLATO. LOCANDA DELLA TAMERICE. MATTINA.































Alla sera nel prato davanti alla stanza della Locanda della Tamerice passava, filandosela quatta tra l'erba, una coppia di anatre non identificata, ma certo un maschio molto colorato e una discreta femmina. Al risveglio, due gallinelle d’acqua vanno infilandosi tra i cespugli. Sole che sorge, lunghe ombre di alberi. I cigni sono sempre lì, ali aperte al nuovo sole dopo notturne brine. Più tardi li abbiamo visti volare via a collo teso: basta con la Locanda.

Mi infilo anch'io tra i cespugli, sui sentieri che attraversano ciò che resta delle valli del Mezzano, bonificate in gran parte negli anni ’60, quindi fiancheggiate da ampie culture di una quantità di ortaggi che alimentano la tavola della Locanda, e oggi tutelate come parco naturale. Grande area di sosta o nidificazione di ogni tipo di uccello. Le tamerici sono in fiore; se non le conoscete, sono quegli allungati piumini rosa. Frulli d’ali, cinguettii, trilli e canti molto vari da invisibili ospiti di fronde spesso in fiore. Qualcosa si tuffa nell’acqua al mio passaggio, ripetutamente. La mia testa si avvolge di ragnatele, tese a ogni ramo, che la mano scaccia e subito si riavviluppano. A un certo punto della passeggiata si intravede la Locanda, tra acqua e canne.

Quando esco dal dedalo, mi decido a pagare il biglietto che l'oasi prevede: meglio tardi che mai. Trovo un baracchino con un vecchio signore svagato che inizia a riempire laboriosamente un modulo su un taccuino, e che alla mia domanda su cosa potessero essere quei tonfi nell’acqua che suonavano come tuffi di signora grassa, ha un imprevisto lampo negli occhi repentinamente sollevati verso di me e fa: forse topi! C’è di tutto qua, aggiunge. Anche ciò che non vorremmo. Mentre scrive e scrive di nuovo a testa china, continua filosofeggiando su come tutto debba convivere, e qui, a Ostellato, conviva. Più tardi vedo nella valle prossima alla Locanda un fitto rigirarsi di grosse carpe nell'oscura acqua accanto alla riva, che escono a dorso ricurvo per subito reimmergersi avvolgendosi.

Nel temuto villaggio turistico si sta allestendo un mercatino: operosi venditori tirano su banchetti, appendono orecchini a trespoli, aggiustano sciarpe, mettono giù sul selciato orripilanti vasi enormi e pieni di incongrui buchi di cui una mattiniera signora accompagnata da amiche va già dicendo: però, nel giardino, poggiati qua e là, pensa che belli! Si vendono tute mimetiche da guerra, che suppongo qui vengano indossate da osservatori di uccelli. Ricordo come mi presentai agli innumerevoli uccelli di Rost, in Norvegia: in pantaloni rossi e giacca gialla. Mi riconcilio con il villaggio; ha un'aria domestica, ingenua, forse innocua.

A colazione è lo chef che ci serve, chiacchierando: Rane? no, non ce ne sono più. Ci dice che un certo gambero per altro immangiabile, messo nelle valli per contrastare non ricordo più cosa, ha fatto fuori una quantità di pesci e animali che prima prosperavano, tra cui le rane e il pesce gatto. Coccodrillo? Ridacchia. Sì, lo ha servito nella Locanda, con imprevisto successo. Lo aveva proposto nel ristorante per gioco, in seguito a una prova fatta durante una “cena estrema” organizzata con gli amici di Slow Food, ed era piaciuto. Quello selvatico, però, che sa di rana – penso a queste immense scaloppe di rana – mentre l’allevato è una sorta di pollo.

Rievochiamo con lui rane francesi: quelle di George Blanc, messe a confronto con le altre, inimitabili, cherubineo aglio e crema di prezzemolo, di quel disgraziato di Bernard Loiseau, che vinceva senz'altro la palma. Ma Loiseau lo abbiamo conosciuto prima o dopo la perdita della stella, ci chiede. Prima, prima. Ma gli occhi bui ce li aveva già. Ah, questo cavolo di stelle! Lo chef ricorda a sua volta francesi giri gourment: Blanc? Troppi grassi. E già, la cucina di Corelli, lo dicevo, si distingue per una sapida lievità davvero speciale.

Ci complimentiamo con lui per la gestione della sala, mentre arriva la sommelier in mattiniera tenuta rosa da ragazza. L'accogliente atmosfera è animata dalla cordiale, semplice simpatia dello chef. Ci concediamo un pettegolezzo su un alquanto noto ristorante romano, mi pare anche stellato, dove un eccesso di brillantine e forzati inchini e sorrisi, unito a una cucina sorprendentemente priva di senso nei suoi tentativi di piattini costruiti - ricordo una gelatina e un boccone di qualcosa in fondo a un profondo e stretto bicchiere che avrebbe richiesto un becco da gru - ci avevano sconfortato.

La colazione è una imprevista pioggia di dolci. Creme, millefoglie, dolcetti. Be’, perché no? Fa un certo effetto di festa, di allegra scostumatezza. Grande attenzione per il caffé. Una marmellata di mele, marmellata che in genere rischia la stupidità, si rivela ottima e sorprendente. Semplice e sapida, un insieme di mollezze e improvvise consistenze perfetto. Quali mele? Come è fatta? Domande taciute, che restano senza risposta.

Che mi porto via? Guardo in un piccolo angolo di cose in vendita, non molto curato: mancano, se non mi sbaglio, i libri dello chef - so che ce n'è sulle zuppe: piatto che promette infiniti bellezze e sapori - e c’è un misto assemblaggio di cose un po’ incongrue. Una scatola mi colpisce per bellezza e pertinenza: almeno ha a che fare con Comacchio: pasta di acciughe. Sarà mia. Lo chef mi spiega che è curata dall’amico Moreno Cedroni, nel gusto come nel design. Ma insomma – chiedo - come sono queste acciughe? Non male, risponde quello. Meglio, dopo l’intervento di Cedroni. Ma poi, se le ho messe in vendita, pessime non saranno, no? (signora mia) .

Amici: un amico molto presente è Tonino Guerra, con disegni e sculture.

Si prospettano ritorni, magari per la scuola di cucina. Anche Nunchesto sogna partecipazioni, pensate un po'. A maggio ci sarà una giornata dedicata al barbecue. La mia prima risposta è un arricciar di naso e un digrignar di denti. Puzze, sole che picchia, vento che soffia, fumi, bruciacchiature, attese, tutto si presenta al mio cuore affranto. Lo chef manco si offende - vi ho detto che è simpatico - e con poche, miti parole mi fa intendere che non è mica americano. Sta parlando di barbecue esperti e probabilmente squisiti. Accenna a coperchi, a particolari griglie, e ricordo di aver intravisto, ieri sera, attraverso la finestra che dà sulla cucina, un gran coperchio nero con cerniera che deve appartenere a simile attrezzo. E poi - magistrale insegnamento - aggiunge: provare, provare, provare, fin che ciò che si fa non riesce (signora mia di nuovo?).
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