mercoledì 27 giugno 2007

MARCHE. VALNERINA. VISSO E MACERETO

Visso.








La Valnerina ha inizio nelle Marche, poi attraversa l’Umbria. Visso, del resto, il paese dalle suggestive strutture medioevali che abbiamo visitato, fino all’ottocento stava in Umbria, oggi è con le Marche. Valnerina, parco dei monti Sibillini, sono realtà geografiche e culturali che attraversano le regioni.

Tant’è che decidiamo un acquisto di salumi e formaggi a Visso, Marche, invece che nella vicina Norcia, Umbria, pensando che la differenza non sarà grande.

Entriamo nella bottega che dà sulla piazza, con un droghiere non solo circondato da serti di ciauscoli e salami, da piramidi di pecorini di Castelluccio, da pile di lenticchie di Castelluccio e Colfiorito, di farro, ma anche in possesso di un barattolone pieno di fiori di finocchio essiccati. “Questo non è certo prodotto industriale”, mi fa. E alludendo a privilegiati traffici aggiunge: “Me lo portano dei privati”. Mi faccio versare una saccocciata della preziosa spezia in un cartoccio.

Comperiamo anche un intero Ciauscolo fatto secondo tradizione, ricco di lardo. Ci sono anche quello magro e quello magrissimo: “Sa, adesso tutti vogliono il magro”, sospira quello. Poi un salame a pezzi grossi, mezza caciotta di pecora stagionata di Castelluccio e alcuni dolcetti di cui non ricordo il nome farciti di nocciole e sapa (sapa, dice il droghiere lasciandomi perplessa sulla presenza non di questo ingrediente, ma di un tal termine da queste bande) e avvolti nella pasta frolla spennellata di Alchermes che dà loro un curioso aspetto da bruco rosa. Scopro poi che nelle Marche si usano dolci a base di fichi e altra frutta secca mescolata con vin cotto, miele, buccia di arancia. Dolci dai nomi tipo Frustangolo, Bustrengolo...

Dal soffito pendono ciarigoli, budelli e grasso di maiale aromatizzati con pepe e fiori di finocchio, essiccati al fumo del camino, che si mangiano alla brace o alla griglia. Si discetta di lenticchie: “Provi queste di Colfiorito” consiglia, “sono a cinque chilometri da Castelluccio”; poi fa delle facce che dicono: “La differenza sta solo nel nome”.

Vedo che ha un mastello di farina gialla fioretto, quella sottile. Che ci fanno con la farina di polenta a giugno? “Appena ci sarà il primo acquazzone di agosto, tutti vorranno polenta, ed io sono pronto” dice lui. La polenta qui è “meridionale”: a pasta fina, va stesa sottile quando è ancora fluida, e va ben condita con rosso sugo di salsicce. “Anche funghi”, ricorda lui, e penso ai monti vicini. E poi mi dice di un modo di acconciarla del tutto inedito: con le dita si fanno buchetti profondi, e si irrora con il mosto cotto, ovvero la cosidetta sapa.

Visso ha una Collegiata romanico-gotica assai interessante, tappezzata di interessanti frammenti di affreschi che testimoniano una storia lunga e ricca. Catturo due teste, una di cavallo e l’altra di uomo che si intersecano intimamente e un San Cristoforo di sei metri, alto fino al soffitto, tra le cui rosee gambone immerse nelle rigature dei flutti del fiume compare un spiritello acquatico che suppongo essere una replica del bambinello, che mentre se ne sta in una prima incarnazione a fare da masso schiacciante sulle spalle del disgraziato santo, con una seconda sostiene l’ingenuo gigante perché non sprofondi.

Macereto.









A pochi chilometri da Visso, su un altopiano verdeggiante e deserto, spicca un santuario di geometrica rinascimentale bellezza, una sorta di ottagono dai vivi spigoli di pietra chiara che brillano sotto la luce del sole, circondato da un ampio giro di portici e affiancato da casamenti che ricoveravano preti, autorità e guardie. Le sculture del portale sembrano un po’ rozze, montane, periferiche, ma se lo sguardo si alza fino agli spigoli dell’ottagono, si vedono capitelli di singolare suggestione per via di certe teste di animali che si arricciano e si inarcano nello spazio come foglie di acanto. In particolare mi incanta un leone a bocca aperta che mostra frastagliata chiostra denti.

Si tratta del santuario della Madonna di Macereto. Una sacra immagine scolpita nel legno, in tempi remoti e medioevali veniva trasportata da muli e mulattieri. A un certo punto, tra fratte, aquile, monti e deserti, i muli si piantano lì e non c’è verso di farli andare. Subito viene alla mente di tutti la spiegazione più ovvia: la Madonna sta bene dove sta e non vuole procedere oltre.
Si tira su una cappella. Del resto, si è sulla strada per Loreto e i pellegrini non mancano. In epoca rinascimentale la cappellina viene rivestita di pietra e così trasformata in scrigno, inclusa in un grande tempio. La cappella-scrigno è ancora lì, col suo interno improvvisamente tutto colorato e dorato e pieno di reliquie, fiocchi e voti, entro la bianchezza geometrica del santuario, che si vuole ispirato dai rigori di Bramante.

Molto suggestivo il giro di portici, che include un lavatoio monumentale e un grande camino centrale, facendo pensare a fitti soggiorni di pellegrini e mercanti sotto le sue arcate.

Viene alla mente Ledoux, l’utopista architetto francese che alla fine del regno di Luigi XV erige le Saline Reali pensando a una sorta di tempio del lavoro, facendo la casa degli operai dotata di un unico immenso camino centrale per celebrare la comunità e l’unione. Ecco che qui ritrovo un solo grande camino per un grande gruppo di convitati, dedicato questa volta a una comunità esplicitamente religiosa, riunita intorno a un unico sentimento di fede. Tuttavia, oltre a questo segno di condivisione, vengono alla mente il transito, la temporaneità, il pic nic, il pensiero già volto al ritorno o al cammino da riprendere. Un unico camino, ma per fugaci pellegrini, che presto il viaggio libererà dalla sbronza della comunità e dell’unione.

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Sospetto che i dolcetti siano i cavallucci. Copio dal sito cingoli.eu
Potrebbero essere visto il ripieno, con aggiunta di spennellata di alchermes.

Dolci tipici locali, confezionati nel periodo natalizio, in un territorio molto ristretto che comprende pochissimi comuni. La ricetta, di origini antichissime, ha una tecnica di preparazione che viene tramandata di generazione in generazione, anche se oggi a custodire tali ricette sono soprattutto le nonne. Abbastanza sostanziosi, si sposano con vino cotto o con un buon vino rosso. Si mantengono a lungo, quindi la ricetta considera un quantitativo elevato di ingredienti per circa 100 cavallucci.

Prendere 200 gr. di noci, 100 gr. di nocciole e 100 gr. di mandorle. Scottare appena le mandorle in acqua bollente, pelarle e schiacciarle. Passare poi tutti gli ingredienti nel tritatutto, e metterli in una grossa scodella aggiungendo 2 bicchieri di "sapa" , 300 gr.di zucchero, 50 gr. di pane grattato, 100 gr. di cacao amaro, 1 bicchiere di marsala all'uovo, 1 bicchiere di vino bianco, 1 bicchierino di caffè, la buccia grattugiata di un limone e di un arancio.Mescolare bene il tutto cuocerlo e lasciare a riposare il composto per alcune ore.
Preparare l'impasto con 500 gr. di zucchero, 1,5 Kg. di farina, tre bicchieri di vino bianco, un bicchire e mezzo di olio di semi, cannella grattugiata.
Lavorare la pasta per circa 10 min. Tirare poi una sfoglia di circa mezzo centimetro di spessore, tagliarla rotonda con un diametro di circa 10-12 cm. Mettere l'impasto al centro, arrotolare il tutto, stringere i lati, formare un ferro di cavallo e tagliuzzare la parte superiore del dolce con forbicine come se fosse la criniera. Cuocere in forno caldo per circa 30 minuti.

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