giovedì 14 febbraio 2019

Minestra con la roveja


Da Artemisia

In un bel giorno nuvoloso e invernale romano - ancora è gennaio - facciamo un giro dalle parti di via di San Teodoro, puntando alla Fondazione Alda Fendi ristrutturata da Jean Nouvel, dove è in mostra un certo giovine di marmo di Michelangelo in prestito dall'Ermitage. Scorriamo accanto ai Fori, incontriamo una curiosa bottega di Mirabilia, ci imbattiamo nel per noi imprevisto Mercato dei Contadini. Ci infiliamo, ovvio. Vedo un banco di granaglie, e una certa misteriosa roveja. Acquisto immantinente. Ci fo una buona minestra, e mi riprometto di tornare dalla signora.

La roveja secca è stata ammollo per almeno 12 ore,  poi fatta bollire per 50'.

Metà è stata frullata.

Poi è stato aggiunto un soffritto di aglio, carota, sedano, cipolla, sale e pepe in olio d’oliva.


La roveja è un piccolo legume simile al pisello, dal seme colorato che va dal verde scuro al marrone, grigio. Nei secoli passati era coltivato su tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in particolare sui Monti Sibillini, dove i campi si trovavano anche a quote elevate: la roveja è resistente anche alle basse temperature, si coltiva in primavera-estate e non ha bisogno di molta acqua. Cresce anche in forma spontanea, lungo le scarpate e nei prati, ma nei secoli passati era protagonista dell’alimentazione dei pastori e contadini dei Sibillini con altri legumi poveri quali lenticchie, cicerchie, fave. Proprio perché cresce da sempre anche selvatico alcuni ricercatori sostengono che si tratti di un progenitore del pisello comune. Secondo altri invece è una vera e propria specie (Pisum arvense) differente da quella del pisello (Pisum sativum), in ogni caso la classificazione botanica è ancora indefinita. Esiste invece un totale accordo sulla sua valenza nutritiva: è molto proteica, in particolare se consumata secca, ha un altro contenuto di carboidrati, fosforo, potassio e pochissimi grassi. Oggi è stata pressochè abbandonata ovunque e resistono solo pochi agricoltori nella val Nerina, in particolare a Cascia dove, in una località chiamata Preci, c’è una fonte detta dei rovegliari. In questa vallata la roveja si semina a marzo a un’altitudine che va dai 600 ai 1200 metri e si raccoglie tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. La battitura è simile a quella della lenticchia: quando la metà delle foglie è ingiallita e i semi sono diventati cerosi, si sfalciano gli steli e si lasciano sul prato ad essiccare. Quando l’essicamento è completato si portano sull’aia e si trebbiano. Si deve poi liberare la granella dalle impurità con una ventilazione che avviene con setacci. La roveja, detta anche roveglia, rubiglio, pisello dei campi, corbello, si può mangiare fresca oppure essiccata, in questo caso diventa un ottimo ingrediente per minestre, zuppe. Macinata a pietra, si trasforma in una farina dal lieve retrogusto amarognolo che serve per fare la farecchiata o pesata: una polenta tradizionalmente condita con un battuto di acciughe, aglio e olio extravergine di oliva, buona anche il giorno successivo, affettata e abbrustolita in padella.
 














6 commenti:

Pellegrina ha detto...

Ma il giovane è di cera?
Se la trovo voglio provare la minestra, rispetto agli altri legumi somiglia a qualcosa? Quasi quasi ci stempero dentro un’acciuga oltre al resto.

artemisia comina ha detto...

È un legume intenso saporito
Il giovane è di marmo

isolina ha detto...

forse nn l'ho fatta bene, a me è sembrata indifferente e meno interessante degli altri legumi, tipo ceci ecc.
Che regalo le immagini!!!

mammadeglialieni ha detto...

Uh che bella ricetta, conosco la roveja, una mia cara amica è marchigiana, me la regala spesso.
Barbara

Pellegrina ha detto...

Oggi con una luce diversa e un diverso pc’ sembra logicamente di marmo. Ieri sera era caldo e morbido come fosse cera!

GufettaSiciliana ha detto...

L'ho acquistata in Umbria ma in cottura mi è rimasta un po' duretta pur avendo fatto l'ammollo.

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