lunedì 2 agosto 2010

EBRIDI ESTERNE. LEWIS. BLACK HOUSE, ARNOL.











Questa sera, tramonto. Ovvero sole tra le nubi, ma sole. Sole che è apparso in cieli limpidi che si alternavano a nere nubi e scrosci di pioggia. La mattina risveglio tra molte gocce che rigavano la finestra e fitta pioggia che veniva giù dal monte. Siamo usciti tardi e ci siamo avventurati, passando per Stornoway, per la costa nord di Lewis. In realtà abbiamo fatto un certo avanti e indietro. Ma prima di parlare di quello, dirò dell’attraversamento di Lewis da Stornoway alla costa ovest. Un vero deserto. Pianeggiante, vagamente ondulato. Rosso bruno. Torba, torba, torba. Erica. Segni di torba scavata. Pare anche che una volta, molto ma molto tempo fa, ci fossero foreste. Ah! Queste sterminate foreste. Che lutto inestinguibile, che momento mori. Che invisibile monumento all’avidità.

Quando siamo arrivati alla costa, davanti si apriva un immenso oceano che qui ti si para davanti senza il solito schermo di isole e promontori. Inoltre appariva il sole, che fino a poco prima era difficilmente immaginabile. Quindi grande orizzonte, casette – riapparse, siamo in una delle zone più popolate - oceano, vasta improvvisa luce.

Per circa sei miglia siamo discesi lungo la costa verso sud. E siamo andati a vedere Arnol House. La black house “vera” ovvero quella con la fisionomia più ottocento, l’epoca delle black houses ricordate e fotografate. Abitata fina a metà degli anni sessanta del novecento da un vecchia signora che non voleva mollarla. Accanto, trasformata in servizi e biglietteria, bookshop, piccola mostra sulla black (ironia della sorte) la withe house in cui l’avevano trasferita, recalcitrante e con le sue mucche appresso, dopo averle promesso che le avrebbero tenute in casa con lei. E' una black lunga, con accanto, se così si può dire, una blackhousina, affiancata.

La cosa che sorprende è che non ha camino, mentre nella metà solo umana, ben divisa dall’altra dove si coabitava con le mucche da una paratia di legno, a terra arde un fuoco di torba, su cui pende una lunga catena con una gancio. Accanto è poggiata una gigantesca teiera di metallo scuro. In effetti, anche prima di entrare si intuiva l’imprevisto. Il tetto di paglia trasudava fumo. E così è: il fumo attraversa il tetto ed esce da tutta la sua superficie. Celebrazione, nelle didascalie, di questa stranezza: niente bugs, che in un tetto tale potrebbero essere un bel problema. Che poi si affumicasse anche il pesce, non so se fosse altrettanto essenziale. Forse questo si può fare anche con metodi meno invasivi. Quindi: metà per gli umani, metà per gli animali, in grande compagnia, la paglia, le patate. Animali, mucche; e nell’atrio centrale le galline. C’era poi un pezzo di terra recintata in cui si asciugava la torba e seccava il fieno.

La black house rimanda al croft, a questa illusione di autosufficienza totale: la carne, il pesce, la tessitura, la verdura, fare il burro, il fuoco…Insomma, c’è ben più della povertà in questo sogno, qualcosa che fa capire la dura opposizione ricevuta da parte degli isolani da lord Leverholme, il ricco proprietario delle isole tra l’inizio del ‘900 e il 1925, anno in cui muore, quando volle – e fallì - cambiare l’economia di queste zone, trasformando il crofting in industria del pesce su larga scala, delle aringhe in particolare.

Ancora sulla black house: il suo schema risale a migliaia di anni, riguarda i vichinghi (che possedettero queste isole), si ritrova in Canada. Del resto, abbiamo visto la casa dell’età del ferro e il broch come declinazioni dello stesso schema.

Credenze e cani di ceramica, enormi. Letto nell’armadio nella stanza con il fuoco, altri due nella stanza accanto. Lunga panca di legno lungo una parete della stanza con il fuoco. Tazza, tazzine, piatti. Pare che questa passione non conosca confini di tempo e di classe.

Il fuoco di torba non veniva mai abbandonato. Intorno a esso la famiglia cucinava, mangiava, si sedeva, chiacchierava; lì si passava il tempo operoso: anche nelle chiacchiere, si aveva sempre qualcosa in mano da riparare o da fare. Si dormiva in tre confortevoli alcove incassate nel muro, tirando una tenda; una era affacciata sulla stanza centrale.

Con la scarsità di legno dovuta all'essenza di alberi nelle isole, il legno delle vecchie barche veniva riusato per la struttura del tetto. L'ossatura di legno era coperta da spessi fasci di fieno derivanti dall'eccesso di produzione dell'avena, tenuti saldamente fermi contro i furiosi venti da un sistema di corde fatte di erica e da sassi legati ad esso. Le mura di pietra venivano tirate su ripulendo al contempo i campi dai sassi, e costruendo due mura parallele la cui cavità veniva riempita con isolanti blocchetti di torba. Le mucche di casa erano munte due volte al giorno, mattina e sera, e si facevano burro e formaggi. A maggio ci si spostava nei pascoli sulle colline e si stava nelle case estive. Mentre le bestie erano via nei pascoli estivi, le colture crescevano indisturbate, si rinnovavano i tetti di paglia e quella vecchia veniva usata come fertilizzante. Dopo la mietitura, ci si dava duramente da fare per accatastare, battere, essiccare, macinare i cereali. Verso settembre tutte le famiglie del villaggio - era lavoro comune - cavavano blocchetti di torba e li accumulavano per l'inverno.

3 commenti:

acquaviva ha detto...

stai regalandoci dei post uno più interessante dell'altro. Un ristoro ed uno stimolo per la mente, come la fragranza del pane fresco sarebbe per un fisico affamato...

Lydia ha detto...

Arte, questi post fanno venire la voglia di mollare tutto e di partire.
In effetti è quello che farò tra qualche giorno.
Ti mando un bacio e ci risentiamo a settembre

Caty ha detto...

è una bellezza leggerti e pensare che il senso della vita non si perde , dobbiamo solo stare in silenzio per poterlo sentire parlare

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