lunedì 23 aprile 2007

VENEZIA. DALLA MARISA.














da Artemisia Comina

Era una quantità di anni che si pensava di andare da Marisa. Che grazie a dio imperterrita continuando nell’opera sua, ha permesso questo lungo indugio senza che alla fine, quando ci siamo decisi, dovessimo rinunciare all’esperienza. Esperienza che consiste in almeno tre cose: il luogo, il suono, il cibo.

Il luogo è tra i più suggestivi, le fondamenta estreme di Cannaregio, verso l’apertura della laguna. A sinistra guardando quella, subito dopo il ponte dei Tre Archi. Se si arriva alle otto, quando ti danno appuntamento per l’unico turno serale, nel quale tutti gli avventori mangiano insieme le stesse portate, come per un invito a casa, si gode la luminosità ultima del sole sull’acqua. Quando te ne vai, apprezzi il buio fondo della città da quelle parti, interrotto sulle fondamenta da qualche locale, specie sul versante di Marisa. Tutti sono così ben piazzati e suggestivi che promettono gioie, ma pare non mantengano. Indagherò più a fondo, ma alla fine Marisa basta come opportunità. Quanto a Marisa anticipo che in conclusione della visita ne ero entusiasta per diversi motivi, che ora cercherò di dire e che – vi avverto – sono in parte idiosincratici. Potrebbero in voi produrre effetti alquanto diversi.

Si favoleggiava di un buchetto così piccolo, che non potevi andare da Marisa se non nella bella stagione, quando si mangia ai tavoli sulle fondamenta. Pensavamo, in questo caldo aprile, che saremmo stati fuori. Freddolosa come sono, avevo con me sciarponi. Invece ci hanno fatti accomodare dentro, nell’effettivamente piccolissimo locale, dove sono stipati trenta coperti e dove troneggia un bancone dall’aria nuova, che nella monumentalità scolpita e nel rosso del marmo pare la tomba di Napoleone. Bancone che mi ha fatto pensare al giusto premio che i gestori si sono accordati per via dei successi del locale.

La cucina molto prossima si vede sul fondo del budello, sbuffante di pentole, con un via vai non solo di Marisa, grande e anziana, ma di tutto uno stuolo di Agate ciabattanti che ogni tanto escono dal buco con le loro palandrane da lavoro per contrattare e aggiustare con i clienti posti e sistemazioni. A questo traffico si aggiungono un paio di uomini molto ingombranti con l’aria non del tutto utile, ma vai a sapere. L’ambasciatrice e il ministro degli esteri di questa folla di gestori è una signora smilza dall’aria burbera che però può cedere al sorriso, che si preoccupa con accenti alquanto secchi che tu finisca tutto ciò che hai nel piatto, e che è pure quella che prende le prenotazioni quando telefoni, avvertendo se la Cuoca sta cucinando per il giorno carne, pesce o cacciagione. A noi è toccato il menu di carne.

Ma prima del menu, parliamo del suono. Il piccolo locale si presta benissimo a fare da cassa armonica al ciacolare acuto e ininterrotto dei veneziani che ci vengono a mangiare; veneziani hard e doc, che hanno fatto concerto per tutta la sera. Chi è stato nella giungla e ne ha sentito i suoni notturni sa di che parlo: è un frastuono inaudito, ma curiosamente musicale e affascinante, che fa sognare sulle invisibili bestie che lo stanno producendo. Non so se è sempre così, né credo che avremmo goduto di questo aspetto della situazione all’aperto. Certo ieri sera la situazione era tale, forse anche grazie a un compleanno in corso, un tavolo di sei avventori che sono arrivati portandosi dietro la torta, che è passata sulle nostre teste ed è stata inghiottita in cucina pronta ad essere risputata al momento debito. Infatti di dolci Marisa non si occupa, come da tradizione di osteria. Per concludere su questo aspetto del menu, diremo che alla fine l’ambasciatrice ci ha offerto senza convinzione alcuna una certa crema al mascarpone che è stata per altro rifiutata.

Menu di carne, dicevo. E’ arrivata una serie di piatti e piattini così concepita: un piatto con tagliatellone all’uovo – lasagnette, le ha subito chiamate il veronese Nunchesto – condite con sugo di carne e affiancate da lasagne al radicchio tardivo, quindi un piatto di funghi misti con porcini, uno di fondi di carciofo, uno con lo stracotto al pomodoro il cui sugo aveva condito le tagliatelle e che il Nuche dice che nella sua sapidità poteva essere capriolo, uno con involtini di vitello accompagnati da radicchio tardivo (sospetto che parte di tale radicchio, insaporito dalla carne e cotto con essa, sia finito nelle lasagne), uno con polenta. Tutta questa pioggia di cibi è stata apprezzata per bontà, quel tipo di bontà lontana anni luce da una cucina tecnica e non casalinga.
Il vino è una nota un poco dolente. Viene offerto un rosso della casa, un cabernet con una lieve nota acida e senza corpo, ma non cattivo né offensivo di chi lo beve, che poi dormirà senza maledirlo. Il Nuche per altro già sogna di portarsi dietro una sua bottiglia.

Ci ripromettiamo di tornare per il menu di pesce e per mangiare sulle fondamenta in una sera estiva. L’ultima foto è stata scattata il giorno dopo, dal vaporino che ci portava alla stazione e che passa da Cannaregio; ci sono gli ultimi avventori del pranzo – erano oramai le tre del pomeriggio - che come si vede si è svolto sulle fondamenta.

Il conto: trenta euro a testa.



Dalla Marisa
Cannaregio 652b, fondamenta San Giobbe
tel. 041720211
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