lunedì 12 settembre 2011

GRECIA. KOS, L’ASCLEPEION. CURARE CON LA LUCE, IL VENTO, I SOGNI, LE PAROLE DEGLI DEI.



In viaggio non mettersi mai in mente di vedere tutto, ma sperare di incontrare qualcosa. Abbandonato il sinistro attivismo del cacciatore che conta le prede, forse capiterà, certamente capiterà se avremo abbastanza fantasia, di incontrare un luogo che si darà a noi, certo di non essere per ciò distrutto.

Credo sia successo con l’Asclepeion. Dopo poco, voci e sguardi e perfino passi lievi e un po’ storditi e sorrisi assorti accompagnavano la visita. Asclepio man mano ci curava con il potente avvolgerci in una formidabile onda di frinir di cicale insieme al penetrante odore delle resine, all’oro lucente, leggero e frusciante delle erbe secche dentro il soffio del caldo vento, alla maestosa presenza sacerdotale degli alti cipressi, alla splendente luce che, squillante sulle nostre teste, andava ammorbidendosi fino a svaporare soave nell’azzurro svanito e lontano del mare.

Frammenti di frammenti di pietre giacciono trattenuti da tre vaste, alte terrazze dalle mura bugnate, congiunte da scale che susseguendosi invitano alla leggerezza e al respiro mentre si ascende al bosco sacro con cui l’Asclepeion si concludeva: lì, in quel verde vivente e nobile, l’ospite era invitato ad andare per meditare, perdersi e guarire. Bosco che ricorda Apollo Ciparisso, Apollo dei cipressi, il dio guaritore che qui, su questa altura di Kos che guarda il mare, benedetta da una sorgente, ha preceduto Ascelpio, semidio della medicina, di cui era il padre.

Tra la pioggia di pietre, qualche testa di leone delle perdute, certo innumerevoli (e il ricordo corre a Venezia, al palazzo del Cammello preso dalla stessa frenesia, trapunto dallo stesso numero innumere di teste leonine, e alla continuità nei secoli dei simboli del mondo antico) e soprattutto due tronchi palpitanti di statue, grandi, grigi, mirabilmente fioriti di licheni bianchi, abbandonati contro un muro come chi spossato si appoggi, o forse – a guardar meglio – così drappeggiati di pieghe piene di vita, accennavano, specie uno di essi, a un tirarsi su da quella immobilità di sasso.




L’Asclepeion fu tempio e luogo di cura: gli afflitti e gli speranzosi che vi si recavano venivano accolti dai sacerdoti - medici appartenenti a famiglie miticamente discendenti da Asclepio e imparentate tra loro dove i saperi si trasmettevano di generazione in generazione, e preparati con ogni cura, dalla meditativa lettura all’implicante teatro alle sulfuree acque, a dormire in un recesso sacro dove il dio gli avrebbe parlato. Dal potere dei sogni e da quelle cure deriva la medicina occidentale; ricordo Ippocrate, il padre fondatore, che naque a Kos in una famiglia di preti- medici, e dopo la cui morte venne costruito l’Asclepeion nella forma che oggi vediamo.

L’Asclepeion da magnifico che era, rovinando e svanendo nel corso dei secoli grazie a dilapidanti turchi e cristiani nell’apparente nulla e sotto il polveroso suolo, tanto da non conoscerne più nemmeno il sito, fu riportato alla luce tra il 1901 e il 1905 dall’archeologo tedesco R. Herzog e dal suo compagno di avventura I. Kazzafitis abitante di Kos, uno di quegli studiosi dilettanti e appassionati delle cose del suo paese che una volta si trovavano spesso nei più remoti angoli del mondo. Gli archeologi italiani continuarono l’opera durante l’occupazione dell’isola; con gli scavi del 1930 - 1942 il sito prese l’aspetto attuale.

Il lavoro degli archeologi, andando controcorrente rispetto al depredare di Cavalieri di San Giovanni e Ottomani, che con quelle pietre costruirono fortificazioni e moschee, ha ricostruito l’erta serie delle monumentali scale dei tre grandi terrazzamenti che organizzano il sito, ha ripristinato alcuni possenti muri di contenimento, ha riaccroccato le tracce dei templi dedicati ad Asclepio e a suo padre Apollo, del posto in cui probabilmente si custodiva il tesoro, delle stanze in cui si attendevano gli incubi guaritori, di quelle in cui alloggiavano preti e pellegrini, delle fontane e dei bagni che furono aggiunti dai romani.

Le epoche sono diverse (dal VI s. a.C. al I s. d. C., dalla Grecia a Roma a Bisanzio) ma la fisionomia delle rovine attuali riecheggia soprattutto l’aspetto che il luogo aveva nella sua età più gloriosa: l’ellenistica, la scenografica, l’orientale, quando il tempio, nel II° sec. D.C. fu sotto la protezione di Tolomeo II d’Egitto, nato nell’isola.

Prima dell’Asclepeion in questa parte di Kos, così propizia, attrattiva di divinità, bendetta da fonti tra cui la Vurina, le cui acque solforose e ferrose curavano le malattie cutanee e i reumatismi, già in età micenea ci fu un luogo di culto, tra il 1550 e il 1050, poi ancora in età cosiddetta geometrica, tra il X e l’VIII sec. A.C.; Nel V secolo a.C., c’era un sacro bosco di cipressi e il culto di Apollo Ciparisso; forse – ce n’è una traccia in Strabone – c’era anche un tempio per Asclepio, perché quello dice che Ippocrate imparò molto dalle iscrizioni votive che lì riportavano dati di malattie e guarigioni. Se ci fu, fu spazzato via dal gran terremoto di quello stesso secolo di cui parla Tucidide; nel IV secolo si hanno tracce certe di culto ascepiadeo, di un altare dedicato a lui; nel III°, viene fondato il santuario, nel II° assume lo scenografico aspetto ellenistico a tre terrazze. Il 242 a. C. fu un anno cruciale: vennero fondate le Grandi Asclepiadi, una festa quinquennale con gare e giochi e competizioni sia sportive che musicali, in occasione della tregua panellenica. Nel I°, II° e III° d.C. i romani aggiungono terme e altri edifici senza però alterare l’impianto che identificava il luogo.

La cura si faceva con l’immersione nel bosco, nella lettura, nel teatro, nei sogni, nella vicinanza con il dio, con il cielo, con il mare, con l’acqua solforosa, con il sole, con il vento, con i beveroni incantatori, con i sonni a contatto con la terra in luoghi riposti dei templi lì dove all’orecchio parlano gli dei, con la vicinanza con i saggi serpenti in grado di rinascere dalla loro pelle, portatori della forza primigenia della terra, che avvicinandosi nel sonno ai pazienti, leccandoli e toccandoli li guarivano, con l’opera di abili conciaossa ed esperti di erbe e farmaci, con il mettersi al riparo dai conflitti in un luogo che aveva diritto d’asilo e ospitalità; che cos’altro poteva desiderare non solo un afflitto, ma chiunque?



In cima alle tre terrazze, con un’ultima scala, si entra nel bosco sacro, abbandonando l’ordine degli architetti per perdersi in quello della natura.


La prima terrazza, cui si accede con ventitrè gradini imbattendosi nelle tracce di un propileo, di un vestibolo monumentale con quattro colonne che sottolineava l’importanza dell’entrare in uno spazio sacro, è ampia, novantatre metri per quarantasette, e oggi è quasi vuota e invasa dal sole, dal vento e dal panorama che arriva al mare. Forse lungo il perimetro c’erano frondosi alberi, e certo ci piace immaginare questa mescolanza di tacite pietre lavorate e vegetazione mormorante, bella oltre che molto ellenistica. Sicuramente c’erano portici con colonne doriche alte tre metri e settanta, che nella loro parte interna avevano stanze, ventisei, per i pazienti e gli ospiti. Il portico vero e proprio, l’ombrosa camminata intorno alla terrazza, era profondo sei metri. Davanti ai portici scorreva – come mi piace! – in canali di marmo, frusciante, l’acqua.





Alla seconda terrazza, trattenuta da un muro alto sei metri, cuore del culto fin dall’inizio, luogo in cui venne costruito il primo altare, si accede con trenta ampi gradini larghi dieci metri. Qui oltre all’altare di Asclepio, l’edifico più vecchio del santuario, c’era il suo primo tempio, ionico, con un pronao quadrato delle stesse dimensioni della cella. Entro entrambe le strutture si conservavano offerte e tesori, non solo dell’Asclepeion, ma anche di chi li lasciava in custodia e deposito, come una tal Cleopatra sposa di un tal Tolomeo il Benefattore che nel 102 a.C. lascia a Kos il nipote Alessandro, gran parte del suo tesoro e il suo testamento; uno dei Mitridate tuttavia – haimé - violerà il tempio.

Accanto al tempio, un edificio quadrato con anticamera e quattro colonne doriche che si suppone essere stato residenza dei sacerdoti e luogo di dormizioni piene dei benefici incubi dei pazienti. Le colonne ioniche che tanto biancheggiano entro il verde dei cipressi e l’azzurro del mare, rimesse in piedi, appartengono a un tempio che forse fu di Apollo, di età antonina (II s. d. C.). C’è pure un maestoso muro di sostegno con nicchie in cui si conservavano ex voto e statue celebrative e votive, tra cui le nostre due con la mossa veste grigia. Tra gli ex voto dei guariti, la letteratura dice che vi fosse il ritratto di Antigono Monocolo del famoso Apelle di Kos, una celebrata Venere sorgente dalle acque sempre dello stesso, delle sculture dei figli di Prassitele. I romani presero questi beni – soprattutto puntando alla pregiatissima Venere - dando in cambio – sempre meglio di Napoleone – una diminuzione delle tasse.

Un’iscrizione su una delle basi dice che lì c’era la statua di Gaio Stertinio Senofonte, che operò a Roma come medico greco nel I sec. d. C., che ebbe l’audacia di essere il medico di Tiberio, Claudio e Nerone e di cui Tacito racconta la partecipazione, non ulteriormente provata, all’avvelenamento di Claudio; era un Asclepiade, come era stato lo stesso Ippocrate, ovvero un sacerdote e medico appartenente a una delle famiglie che si trasmettevano i saperi della cura derivanti da Ascelepio medesimo, assunto come avo, e che gestivano l’Asclepeion. Pur essendo vissuto così pericolosamente, tornò a Cos con una corona d’oro in capo, pieno di onori e danaro - Plinio il Vecchio dice che il medico rinfacciò all'imperatore di accontentarsi come compenso per le sue prestazioni professionali della cifra di 500.000 sesterzi, sebbene in passato, da privato al servizio di famiglie benestanti, ne avesse guadagnati ben 600.000 - e incrementò biblioteca e cure idroterapiche dell’Asclepeion.

Tracce di una tribuna semicircolare fanno pensare a raduni e consessi all’aperto, forse dei sacerdoti.
Tutta la seconda terrazza è caratterizzata da edifici che testimoniano un crescere e un sommarsi di funzioni nel tempo intorno all’altare da cui tutto ha inizio, senza che si sia ancora pensato quel progetto scenografico che nel II° sec. A. C. abbraccerà tutto il santuario dandogli una forma unificata e monumentale, adatta a essere vista dal basso, da lontano, dal mare; qui gli edifici sono in rapporto a chi li avvicina con l’uso, con la prossima presenza.





Con il terzo terrazzo, con un muro di undici metri di altezza, si continua a celebrare il rito dell’ascesa: vi si accede con sessanta gradini; anche qui portici prima di legno poi di marmo, anche qui stanze per ospiti, anche qui un chiedersi come ci si doveva stare, dove avremmo preferito accomodarci. Nel terzo e ultimo terrazzo c’era il secondo, più recente tempio di Asclepio, del II s. a. C.. Dorico, per riecheggiare il famoso fratello di Epidauro, e con lo stesso numero di colonne, ma più grande di un terzo per rivaleggiare con lui. Era – davvero intricante a sapersi – senza altare, perché il rito veniva celebrato nel tempio della seconda terrazza, rimasta centro del culto. Questo grande tempio al culmine serviva per completare l’opera, concludere la grande scenografia dei terrazzamenti; immaginate le tre terrazze nere di cipressi, bianche di marmi, viste del mare.

Per quattro secoli qui a Kos funzionò la proibizione di tagliar cipressi, pena la morte; Tirullio, ammiraglio di Antonio, nel 32 a. C., pensando che la guerra prevale su tutto e toglie di mezzo ogni altra regola li tagliò per costruirvi una flotta. Antonio fu vinto da Ottaviano  nella battaglia di Azio, e un anno dopo la strage di cipressi i soldati di quest’ultimo giustiziarono il sacrilelego. Gli attuali, alti e belli, avvolti nei loro severi mantelli verdi spesso lunghi fino a i piedi, sono lì da un po’ più di sessant’anni, e se li si lascia in pace, pare possano arrivare a età vetustissime, pare perfino millenarie.

Mi viene in mente una solitaria villa vista in una baia persa e nascosta del golfo di Gökova, proprio sul bordo del mare, bianca, sepolta nei cipressi; benché il legame tra cipressi e il mondo dei morti sia forte anche in Anatolia, da cui Kos non è lontana, né nello spazio né nel tempo della storia, nel Medio Oriente non li si relega nei cimiteri, il si ama come alberi del paradiso terreste. Ricordo che Ciparisso era un giovane amato da Apollo, da lui trasformato in cipresso, albero destinato al conforto dei morti, dopo che avendo ucciso per errore un cervo amico, chiese di poterlo piangere per sempre.

Poi, oltre le tre terrazze, si accede, con un’altra scala, al bosco sacro. Quando col passare dei secoli il tempio del terzo terrazzo venne trasformato in chiesa, divenne – udite – la chiesa della Vergine del Bosco (forse aveva un profilo che somigliava un po’ a quello di Igeia, la figlia guaritrice di Asclepio, così come lo immaginò Scopa).

Nel corso dei secoli infatti, tra un terremoto e un altro il luogo cambierà dei conservando sempre la memoria degli stessi: da Apollo Ciparisso a Asclepio suo figlio nel IV-III secolo a.C., da Asclepio a Ciparisso nel III s. d. C.; nel V secolo, terremoto e trasformazione in luogo cristiano; nel VI terremoto questa volta più feroce; nel XIII-XIV secolo il convento delle Vergine nel Bosco dipendente dal monastero di Patmos; solo quando arriveranno i Cavalieri di San Giovanni ci sarà una vera cesura con il passato e il santuario diverrà cava, mentre assai più gentili saranno i turchi che nel XVIII secolo ne faranno un giardino; nel XIX arriverà la piena ma non definitiva desolazione, oggi è un luogo magico che profuma di tutto il profumo che ancora sa mandare il mondo antico.


Vicino a Trastevere l’Isola Tiberina, dove ancora sorge un ospedale, ricorda Asclepio: anche lì venne costruito un tempio per lui dopo che dalla nave che tornava dalla Grecia dove si era andati per consultare il dio in seguito a una tremenda peste, scivolò giù un serpente che nuotò fino all’isola, indicando per essa il gradimento di Asclepio.

All’Asclepieon oggi si arriva con un passaggio esoterico, attraversando un ombrosissimo lungo tunnel di cespugli e arbusti che sbuca di colpo nella luce splendente delle terrazze, accompagnati da nugoli di smilzissimi gatti come sempre in Grecia; questa volta – Asclepio? - almeno consolati da una ciotola d’acqua.




Le notizie sono tratte innanzitutto dalle tabelle esplicative in loco come pure la mappa qui sopra, e poi da L’Asklepieion di Kos, Davari, Atene, a cura di Elena Davari con testi di Paraskevi Vlaxouli, anno di edizione non detto, ma successivo al 2004 stando alla bibliografia; con una traduzione in italiano così surreale da meritare l’acquisto anche se non si fosse interessati al tema. Un esempio: Kos è “una bellezza scalpellata dalla storia”.


Notizie sul medico Gaio Stertinio Senofonte, oltre che dalla fonte precedente, anche da
www.treccani.it
e da
bmcr.brynmawr.edu

Foto di Artemisia e Nunchesto.

3 commenti:

papavero di campo ha detto...

splendido racconto da leggersi nelle lunghe serate d'inverno ma anche in un iquieto giorno settembrino, -non letto tutto però, per ora non ce l'ho fatta ma ci ritorno, è come spiluccare un grappolo di Uva Regina o di moscatello tardivo. Centellinare. Sufficiente però a rinfocolare reminiscenze, prima fra tutte quel sognare la propria guarigione -che ho sempre saputo e messo in archivio- allora mi guardo in faccia e invece di prendere la rincorsa per un autosputo ben mirato in un oculo (Totà docet) con più eleganza mi dico "eh come mai stiamo a perdere tutto 'sto tempo? che mi vuoi fare l'identificazione con l'aggressore? (nella fattispecie la malattia) eppurelo sai bene che non è vantaggioso allora a che ti serve menare il can per l'aia?" ecco grazie a te cara la mia Artemisia talentuosa, sono a godere de tuo scrivere e a farmi qualche domanduccia

papavero di campo ha detto...

totà è semplicemente totò il grande totò

artemisia comina ha detto...

essì, su questo post bisogna dormirci su ;)

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