domenica 21 dicembre 2008
PARIGI. MUSÉE DU QUAI BRANLY
Delle nuove opere parigine, almeno di quelle nell’area centrale, non avevamo ancora visto il musée du quai Branly . Ci andiamo.
Giornata fredda e piovosa, che ci farà solo attraversare, controvento, il giardino del paesaggista Gilles Clément pieno di erbe grondanti, di stillanti ciuffi di alte graminacee. Questo non impedisce di apprezzare che si tratta di un giardino affascinante ed evocativo, che fa subito venire alla mente quanto Jean Nouvel sia in grado di convocare veri brani di mondo verde intorno alle sue opere. Pensiamo alla Fondation Cartier, alla sosta estiva che abbiamo fatto nel giardino che anche lì circonda l’alto palazzo di vetro di Nouvel, dove tutto era la suo posto come in un bosco, merli, bambini, tranquilli lettori di giornali, noi. Si tratta di giardini che non assumono quell’aria finta, da modellino, con piante non amate, che stanno lì solo perché ce le hanno trascinate e che presto si lasceranno morire di desolazione, che assumono a volte i giardini subordinati al disegno dell’architetto del cemento e del vetro.
Quanto al cemento, al ferro, al vetro, sono colorati e mossi, composti da diversi volumi che si sommano in un insieme sorprendentemente armonico, fatto di cubi e curve. Pare che Nouvel abbia tenuto a mente, come musa ispiratrice, la vicinissima Tour Eiffel. All’interno del museo la parte espositiva è tutto implosa su si sé, sembra di entrare in un grande, scuro stomaco nel quale penetrare sinuosamente attraverso delle grandi vie avvolgenti, un apparato organico dalle pareti di cuoio, lisce e curve come gengive, dove si sta tentando l’assimilazione e la digestione di differenze; differenze di culture e di modi di concepirle e vederle.
L’impianto è apparentemente semplice: ci sono, una dopo l’altra, una accanto all’altra, le grandi aree del mondo non occidentale. Asia, Africa, Oceania, Americhe. Si scivola dall’una all’altra quasi impercettibilmente, sempre immersi nelle luce buia in cui risplendono morbidamente le vetrine, in una successione di oggetti che intuisci infinita: le scale salendo avvolgevano un magazzino a vista di strumenti musicali affiancati l’uno all’altro negli scaffali come un esercito innumerevole.
Nessuno di questi oggetti ha subito quella separazione con cui gli occidentali connotano gli oggetti: quelli che servono a qualcosa, e quelli che sono solo belli, ovvero quelli il cui significato è solo simbolico. Qui ogni cosa, vesti, utensili, maschere, è un consolidato abbraccio di simboli e funzione. Quest’unità è ammirevole, invidiabile e saggia, e dona ad ogni oggetto il potere di parlare una lingua complessa e densa di cui senti il suono anche senza capirne una parola. Tutti insieme poi, producono una sorta di profondo rumore di fondo, cupo, vibrante e indistinto, molto intenso, in cui stai come un felice pesce in una vitale acqua, ma che pure vorresti fermarti a districare fino a ritrovarvi l’articolazione di un senso più netto e separato, di cui capire le parole. Cartelli, video, ti accompagnano come promesse possibili che tu possa avere prima o poi in mano un filo d’Arianna, una via per entrare più da vicino in qualcuno di questi mondi che intravedi.
So che la creazione di questo museo è stata accompagnata da molte perplessità, e mi pare di capire che siano in rapporto con la difficoltà di mettere in discussione la separazione tra ciò di cui si occupano antropologi ed etnografi e ciò di cui si occupa la storico dell’arte; ciò di cui si occupa chi studia le culture e le funzioni e ciò di cui si occupa chi studia l’estetica, cerca la bellezza. Sembrerebbe che il museo abbia tolto ai primi per dare ai secondi. Io ho l’impressione che se pure fosse così, si apre anche l’opportunità di vedere i limiti di quella lettura separata e di fare nuove ipotesi, inventare nuove categorie.
Abbiamo avuto occasione di vedere, qualche tempo fa, le due istituzioni che hanno dato (o da cui sono state tolte, mettetela come vi pare) le opere per essere radunate al Quay de Branly: le Musée dell’Homme e il Musée national des Arts d'Afrique et d'Océanie. All’epoca della nostra visita il primo aveva l’aria devastata, vuota, e sconvolta di chi avesse subito un furto; il secondo era ancora intatto e trasudava un’imbarazzante cultura passata, quella del colonialismo, in ogni pietra e maniglia e opera esposta. Bellissimo nella sua coerenza accompagnata da una precisa retorica estetica, ma, lo ripeto, imbarazzante.
Tutto questo travaglio – arte oppure cultura, oggetti separabili dal loro contesto d’uso, oppure ancora immersi in esso, come un resto umano, una mummia, tutto il passato coloniale, chi c’è e chi è stato dimenticato e se ne risente, e ancora e ancora - si riflette anche nel nome del museo. Di fatto, viene chiamato anodinamente musée du quai Branly, invece che musée des Arts premiers (un nuovo termine, che tuttavia richiama primitif, con tutte le questioni connesse) o arts et civilisations d'Afrique, d'Asie, d'Océanie et des Amériques (arti, quindi non culture, con tutte le questioni connesse; inoltre sono escluse le arti ‘colte’ di India, Cina, Giappone ecc., ospitate nel Museo Guimet.). Quindi, musée du quai Branly, in attesa che il tempo elabori nuove categorie.
Andatevi a vedere il suo sito, davvero ricco e quasi labirintico, che include un progetto di messa in rete delle collezioni, già in parte attuato, ciclopico oltre che suggestivo e promettente.
In sintesi? Invidia e vive la France.
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