mercoledì 20 agosto 2014

Venezia. Niente è culturale quanto un Museo di Storia Naturale




Dopo decenni, mi decido e mi infilo nel Museo di Storia Naturale. Infinite sorprese, di tutti i tipi.

La prima: un fresco, verde, curato piccolo giardino, accessibile da due ingressi anche ai non biglietto muniti. Con una veranda e molti tavolini e sedie a disposizione; niente bar; sembra un felice invito a ombreggiata, tranquilla, verde sosta, rarissima possibilità in quei paraggi e rara in Venezia tutta. Portatevi un thermos e un cicchetto, e andateci a leggere un libro.

La seconda: tutto è nuovo o rinnovato (è così raro a Venezia, e non parlo di rispetto dei luoghi ma di inerzia e altro uso di fondi); so poco dell'uso, ma forse c'è, pare che il Museo abbia un qualche successo di pubblico.

La terza: è piccolo e denso: ci sono almeno dieci o venti - ma certo di più, sono stata così superficiale! - universi culturali, tutti riuniti sotto l'egida del Naturale; i detti universi un po' sgomitano, un po' si affratellano; stanno bene insieme, ma si capisce che al primo colpo di vento potrebbero volare chi di là chi di qua. Culturale e naturale si fronteggiano tutto il tempo facendo finta che tutto sia naturale, mentre tutto appare dannatamente culturale, sembra una grande ironia, pare quasi di vedere gli allestitori ridere sotto i baffi, anche se so benissimo che non è così (non ridono).

Insieme alle raccolte micologiche, entomologiche, ecco le etnologiche; per esempio, gli oggetti che si portò appresso dall'Africa un certo Miani - ne parlerò anche dopo - uno che dopo aver abbandonato l'idea di fare la catalogazione - arieccola - di tutti gli strumenti musicali del mondo, si impegnò - senza motivo apparente - a cercare le sorgenti del Nilo, nel frattempo raccogliendo souvenir africani (non trascurando di compiere al contempo atti efferati che non sono sono in genere nominati nelle sue commemorazioni e men che mai nel Museo come salienti, forse perché erano così tanto "normali" lì, a quel tempo).

In effetti, in molte raccolte non solo il nocciolo originario, ma anche i successivi affluenti sono sovente frutto dell'uzzolo di un privato collezionista, di un fissato - per motivi incogniti a tutti, lui incluso, il che non li rende meno validi - di questo o di quello, e che dopo averne voracemente collezionato, dona il tutto al Museo, lui o i suoi eredi. Ancora a proposito di collezioni "etnologiche": tra queste appare anche un certo Conte De Reali che a fine Ottocento andò a sterminare un gran numero di nobili animali africani con le cui teste e pelli tappezzò poi fittamente alcune stanze della sua veneta villa (arredo replicato nel Museo in alcune stanze rosse) con predilezione per la caccia grossa, ovvero la nobilitante, la regale, quella rivolta alla Fiera, alla Bestia, vinta la quale si diventa degni di guidare gli uomini, di farsi re. Infatti il disgraziato ippopotamo, l'infelice elelefante, lo sfigato leone, sono tutti rappresentati, impagliati, mentre mostrano le zanne, digrigano i denti. Ecco che il naturale degli infelici e il culturale dell'assassino si coniugano inestricabilmente: chi è in mostra, il bufalo o l'uomo? Quest'ultimo è presente anche in effige: sembra quasi biondo, pare inglese, diresti che è un lord sulle sue; tutta quella caccia lo aveva reso molto regale.Oppure, Giancarlo Ligabue di cui il Museo parla nei modi celbrativi del defunto che invece scopro esse vivente, senatore di Forza Italia, mecenate del Museo, scopritore di dinosauri forse hobbisticamente (ma certo accompagnato da esperti) e beneficiario di molte lauree honoris causa. Il dinosauro è lì, a fare figura; è un Ouranosaurus nigeriensis; insieme a lui è stato ritrovato anche un pezzo di
Sarcosuchus imperator che pure non delude: un immesa parte di un gigantesco cranio con occhi e narici sulla testa (respirare e vedere a fior d'acqua).

Naturale: da nascere, quindi ciò che genera; supposto avere un ordine, che si va interrogando. E come lo si interroga? Scomponendo, catalogando, classificando, analizzando, oppure afferrando intuitivamente, vedendo dentro l'essenza delle cose con un "colpo d'occhio", una sonda.

Il Museo si presenta come Museo delle emozioni: vuole incuriosire, non esaurire saperi, poscia il sollecitato approfondirà (affronterà le catalogazioni, e magari i depositi di cui lo stesso Museo dispone); congiunzione di wunderkammer e scienza scientifica? Del resto la wunderkammer imperava anche nell'ultima, bellissima Biennale di Gioni... (Però, però, puntualizzo: il discorso del Museo non è questo, la wunderkammer lì è tenuta alla "doverosa distanza" e la condanna illuminista non viene affrontata a piè fermo, ma ancora celebrata anche se con convinzione scemante: la camera delle meraviglie era capriccio privato di élite, impossessarsi di cose, inseguire una pura estetica etc. e il discorso sulle emozioni appare come tutto nuovo, senza quelle radici). Torno sui bambini: molti, e il bookshop sembra fatto solo per loro; così come certi intenti molto esplicativi, pedagogici, sembra che a quelli si rivolgano; ma diciamo la verità: è così netta la differenza tra noi e loro?





Eccolo Giuseppe Miani, che non mancò di adottare gli abiti orientali, con cui faceva io credo molta più figura; l'immagine qui su viene da wikipedia, che dà una molto sbrigativa biografia del nostro; più completa quella Treccani; ma solo quanto scrive Reddavide ci dice che un certo nobile che lo educò a sue spese era il padre naturale (la madre era una al suo servizio; poi su questa storia familiare Reddavide insiste un po', traendone i motivi per una vita all'insegna del non so chi sono e voglio diventare famoso); oppure, ci parla di una crudele strage che GM fece di un gruppo di africani e della distruzione del loro villaggio.

Treccani
Giancluca Reddavide, in un articolo: La prova del viaggio. Giovanni Miani e le sorgenti del Nilo, pubblicato in academia edu.

Qui sotto due bimbi Akka, una tribù pigmea; erano suoi, di GM (la compravendita di schiavi era fiorente, e l'Africa aveva soprattutto quel "bene"); alla sua morte finirono in dono al re d'Italia; vennero poi educati piamente da una nobildonna.

"Il caso dei "piccoli Akka" rappresenta bene quell'idea di "educare" le popolazioni dell'Africa, che guidò un certo colonialismo ottocentesco. I due maschi, riprodotti nell’illustrazione [...] appartenevano all’esploratore Giovanni Miani. Alla morte di costui, il Kedivé del Cairo li donò al Re d’Italia. Successivamente «furono raccolti dalla munificenza» del conte Francesco Miniscalchi. La moglie del conte li educò a sue spese, affidandoli all’insegnamento del signor Alessandro Scarabello. I loro nomi erano: Thibaut e Chair-Allah."

Da unicaen.fr

Anche di questo il Museo non mi pare faccia parola, ma non posso giurarlo. L'immagine dei bimbi tenuti per mano da non so chi non è presente nel Museo, viene dal sito indicato.



Il Museo nel sito di Lorenzo Greppi, l'architetto che lo ha progettato.

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