domenica 5 settembre 2010
FRANCIA. BORGOGNA. CHÂTEAU DE SERCY.
Altra meta imprevista, trovata “per strada”. Siamo sulla D981 e andiamo verso Tournus, ormai vicina. Uno degli innumerevoli castelli di Borgogna. C’è gente che lavora industriosa sulla piccola isola al centro del laghetto in cui si riflette e che va illuminandosi dei raggi di un sole serale; tagliano, curano il verde, c’è tutto un ronzio di seghe. Certo è un lavoro operoso e impegnativo, che contrasta con lo château silente, chiuso nella sua enormità fuori scala. È una proprietà privata. La visita è insieme gratuita e misera: ci giri un po’ intorno, leggi un cartello, entri in quelle che vengono definite cucine, un basso locale al piano terra con un enorme camino in afflitto disuso e molti disparatissimi oggetti gettati qua e là come fosse un ripostiglio tra casa e cantine, e sul tavolo dei volantini - unica concessione al turista - con la succinta storia del castello.
La gestione da parte dei privati di codesti mostri di pietra meriterebbe tutta un'esplorazione a parte; trasuda da ogni cosa un'emozione specifica che ci parla della famiglia mentre al contempo le parole tacciono su di essa; la contemporaneità del castello è muta, ma la comunica l'atmosfera imperante. Qui l'emozione è di indifferenza se non di fastidio per l'ospite, che sembra un obbligo cui si adempie, espresso anche dalla gratuità: non voglio nulla e ti dò poco (non so se sono possibili visite anche paganti e più approfondite, non ne ho visto traccia); penso alla diversità di quei castelli che invece chiedono che l'ospite ci sia per la loro sopravvivenza e a tutte le differenti e spesso impacciate strategie messe in atto a tale scopo.
Colpisce un'alta torre con un grande e maestoso cappello di legno, una sorta di veranda circolare aperta da tutti i lati coronata da un tetto conico, che risulterà essere il must del luogo, rara specificità del castello.
E poi in modo diverso, nell'emozione di simpatia, colpisce la cappellina, da un lato, con la soglia di pietra in frantumi che scompongono la frase di preghiera o la dedica che vi incisero, in alto una testina di pietra che colora la sua antichità con il verde dei muschi e le bianche impertinenze dei piccioni, e dentro un elenco di nomi di famiglia, dai primi del 1800 al 2004; i morti, tutti qui e tutti insieme. Ecco, questa è la specificità di Sercy: da un lato non ti si filano, dall'altro improvvisamente entri nel cuore della famiglia. Insomma, manca un apparato di ricevimento: o dentro, o fuori, senza intermediazione.
Poi, girando l’angolo di un basso muro, ecco un posto per i vivi, una bassa casetta di pietra preceduta da un pollaio – e fors’anche asinaio – dipinto, e un bell’orto, e una piscina, e più in là un anfiteatro di cassette per le api. Può darsi che gli attuali si siano rifugiati lì, lasciando l’enorme macchina di cui forse non sanno che fare, ma al tempo stesso restando accucciati al suo fianco. Le pietre abbandonate sono belle, i muri che si disfano; vale la pena goderne, anche solo tenerseli vicini. Pure in certe grandi stalle, o fienili, c’è movimento; il castello vive ai margini di se stesso. Comincia a divampare qui la mia ammirazione per certe grandi porte di servizio dipinte di un bianco cilestrino, armate di grandi ferri scuri e arricciati, che si aprono su grotte scure e fresche. Non mancano le giovani charolais, bianche e diffidenti, pronte alla fuga per difendere le pregiate polpe dall’ignoto nemico.
Bene, passiamo alle informazioni. Viene definito uno câteau - fort di pianura; nasce nel XII secolo con un importante funzione difensiva del Mâconnais. L’ultimo Sercy muore nel XVI secolo - un incidente a una festa di nozze, ci dicono con improvvisa loquacità in un contesto di massima stringatezza; risuona dopo secoli l'imprevisto e la tragedia - poi ci sono abbandono e rovine; rinasce con gli attuali proprietari nel XVII secolo, ma non ha fortuna. Prima la Rivoluzione lo saccheggia e aggredisce, poi, dopo un restauro del XVIII secolo, nel 1929 è oggetto di un grande incendio. Ora è un assemblaggio alquanto composito se pur pittoresco e bello di resti, a volte molto particolari come la hourd, l’incastellatura di legno aperta appoggiata sulla cima di una delle torri, del XV secolo, una delle pochissime rimaste e forse l’unica integra (quella veranda cui accennavo prima).
In questo sito interessante, icastelli.org, in cui si intende svelare cos’è un castello analizzandolo come macchina da guerra, la hourd viene intesa come apparato ligneo sporgente, con cui si implementavano mura e torri agganciandovelo ora in un modo ora in un altro (poggiato su mensole di pietra, agganciato a ganci di pietra, sostenuto da pali infissi in apposite nicchie), mentre qui la hourd è appoggiata sulla cima della torre e sostiene il conico tetto; sembra più un bel vedere che arnese bellico. La monumentale piccionaia, come dicevo, è in effetti una ex torre difensiva, appartenente alla cinta esterna oggi quasi del tutto scomparsa. Vedo con parecchio divertimento che ci sono un paio di finestrelle con parecchi passaggi rotondi a misura di piccione ritagliati negli scuri.
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