martedì 7 settembre 2010
VENEZIA. RITORNO ALL’HARRY’S DOLCI.
È bello passeggiare sulle fondamenta della Giudecca, la folla scompare e ci si perde in quei luoghi silenziosi e periferici che è così facile trovare a Venezia solo che si smetta di andare drio l’onda, come dicono i veneziani, ovvero di seguire il flusso dei passi di tutti, che scorre in poche e costrette direzioni.
Alla Giudecca tutto diventa ancora più remoto, la città monumentale si delinea lontana con la sua magnifica schiera di palazzi allineati oltre un braccio di mare tanto ampio da far passare transatlantici e spesso mosso da un certo moto ondoso, e si vive il sentimento dell’isola in modo più intenso, di quelle isole con pochi abitanti, un piccolo emporio, una locanda, qualche trattoria.
Passiamo sotto i Tre Oci, la casa neogotica dove passò parte della sua vita di giovane pittore senza soldi un nostro amico (oggi più che ottantenne e che ebbe poi i meritato successo), ospite della proprietaria in veste di amica e mecenate in quell’edificio che univa all’eccezionalità della costruzione e del luogo stanze gelide, tali per cui il fortunato disgraziato per sopravvivere e scaldarsi faceva periodiche corse su è giù per le fondamenta.
Lungo la nostra passeggiata scopro che un ambulante ripassa i movimenti da fare con la fisarmonica davanti a una vetrina che funziona da specchio; dietro di lui una coppia è seduta sui gradini di un ponte: lui disegna, lei legge, molto assorti entrambi.
Cammina cammina cammina, quando siamo arrivati in fondo, quasi a Mulino Stucky (che ancora non abbiamo visitato nella sua nuova veste restaurata, tante sono sempre le cose da fare a Venezia) nonostante tutti i propositi di non mangiare a pranzo, la tentazione di sederci ed essere un po’ accuditi è stata tanta che siamo tornati, dopo molti anni, all’Harry’s Dolci.
Per lungo tempo infatti abbiamo abbandonato quella meta che era stata abbastanza frequentata, tanto da diventare “clienti con lo sconto”, come usa a Venezia per i residenti e gli habitué, costume che se non fu inventato da Cipriani certo vede in lui uno dei sostenitori. L’abbandono avvenne al tempo dell’introduzione dell’euro e del raddoppio dei prezzi, verificatosi lì come altrove; rincaro che tanto ci irritò oltre a farci sentire troppo costoso un pasto, sia all'Harry's Dolci come in tanti altri posti prima ritenuti frequentabili.
Il ricordo più bello di quel tempo di frequentazioni è un giorno settembrino di acqua alta con le onde che spazzavano le fondamenta a ogni passaggio di barca, il gentile maître (che oggi, con l'orgoglio di far parte di una multinazionale, ci dicono probabilmente a NY) che andava in giro con le mollette per tener su i pantaloni e noi a sollevare i piedi (io pure con una redingote lunga fino a terra) a ogni arrivo d’acqua. Non ci sono più le alucce di pollo fritte, ottime, che mangiavamo ogni volta, ma ci dicono che con un paio di giorni di preavviso si possono ancora avere.
La cucina è retrò, come si vede bene dai dolci, in cui non c’è ombra della “tecnica” e dell’estetica “sofisticata” che oggi anche la più ingenua delle blogger di cucina va coscienziosamente apprendendo. Ecco che ce li portano perché li si scelga, enormi e gonfi di dorate meringhe, in coppia, sui vassoi. E io voglio l’unico che non mi viene mostrato, come non mancano di farmi notare sorridendo i due “moretti” (a Venezia si chiamavano così le statuine portaguantiera, spesso dei mori): un cosidetto millefoglie, che arriva sotto forma di fetta monumentale in cui una panna montata mescolata allo zabaione viene porta tra due strati di un lievitato soffice come un angel cake. Non manca una meringa. Più buono di quanto non avessi mai supposto vedendo questi dolci così impegnativi, che infatti non avevo mai ordinati, ripiegando sulle ottime crêpe. Nunchesto dice bene della sua torta di fichi all’antica, che io testo con una forchettata: ricca e umida farcia di fichi, guscio di pasta friabile. Se si vuole, si può venire anche solo a prendere un dolce.
Lo stile del servizio si nota per l'amichevolezza che non si prende confidenze (mirabile equilibrio quando riesce, e distintivo di una eccellenza italiana) e per la solerzia.
I prezzi sono alti (45 euro per un piatto di seppie con la polenta, buono) ma come scrivono anche nel menu per incoraggiarci, un solo piatto, abbondante, può bastare per un pasto, e in effetti alla fine con quelle per il Nunche, i loro classici tagliolini gratinati per me (sospetto fortemente abbiano attenuato la famosa quantità abbondante di burro), due dolci e il vino della casa abbiamo speso 100 euro in due.
Nel pomeriggio mi do alla lettura meditativa di un libretto autobiografico di Cipriani figlio (che ne produce in quantità), La leggenda dell'Harry's bar. Mi dà diverse suggestioni per la comprensione dell’attuale cultura della tavola. Moderna per vari suoi aspetti (e per forza di date: non possiamo non definirla attuale), ma anche più antica di quella di cui parla il nostro; antica per una componente tradizionalista, da parte dei nuovi clienti, tra bar dello sport e tinello piccolo borghese. Tra maschilismo e mammismo (parlo dell'ambito italiano). Conseguenze della democratizzazione della cultura della tavola permessa dal web, che ha portato alla ribalta protagonisti nuovi, che vengono da culture che non avevano mai partecipato al discorso sulla cucina e che portano con sè il retaggio di un mondo più antico di quello che fino ad allora ne aveva scritto. Mentre Cipriani parla di un mondo in definitiva meno antico, di un passato prossimo anche se del tutto scomparso; quello delle élite, che lui identifica soprattutto con l’aristocrazia. Mondo che non voleva in primo luogo un piatto eccellente e lo chef famoso, ma uno stile di accoglienza e un ambiente, un'atmosfera. Come dice lui, un "servizio" e "il sentirsi a casa propria"; che poi voleva dire essere nel posto giusto, quello che confermava l'appartenenza a quell'élite. Un mondo in cui nessuno avrebbe mai asserito bellicosamente (contro arredi ricercati e cerimonie del servizio): ciò che conta è quanto ci viene messo dentro il piatto! Cipriani è in guerra aperta con guide (dalla Michelin non viene nemmeno citato) e critici gastronomici.
Nessuno sembrava piacere a Cipriani padre, e poi al figlio, come chi non pagasse il conto, purché aristocratico e preferibilmente singolare, diciamo colorato, ovvero in grado di produrre aneddoti e letteratura (non a caso Arrigo Cipriani scrive e racconta): fare prestiti a quelli voleva dire in qualche modo impiegarli nel locale perché ne alimentassero l’atmosfera. Ho visto all’Harry’s Bar, non molti anni fa (forse è ancora lì), un tavolo riservato ogni pomeriggio a un certo personaggio veneziano senza soldi ma suggestivo, perché faceva ambiente, e conosco persone cui si fanno ampli sconti per lo stesso motivo.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
5 commenti:
non potrei permettermi di mangiare lì... così sbavo leggendo e guardando le foto
Bei post, belle descrizioni, belle foto... è sempre interessante vedere la propria città attraverso gli occhi degli altri
!!!!! Tu hai il potere di scatenare la mia nostalgia e anche la meno nobile invidia.
ho un bel ricordo dell'harri's dolci e sto parlando di anni prima del 2000 prima dell'euro, mangiammo al chiuso era stagione fredda e siccome gradii molto il baccalà mantecato mi venne chiesto l'indirizzo e la ricetta inviata a casa, beh davvero un altro modo di accogliere il cliente, è caro sì ma spesso non si batte ciglio per spesucce o aperitivi nei locali à la page e vuoi mettere ristorarsi lì alla giudecca, ti fa sentire un senso di esclusiva come viaggiatori speciali, non c'è folla né mania turistica e vedere le zattere di fronte ti fa un pizzicore artistico voglia di acquarellare anche solo con macchie di colore e basta!
ps: invidiabile sei alla grande!!
lo ridico: si può anche prendere solo un dolce :)
e dò l'inidcazione di una trattoria molto più economica, sempre su quelle fondamenta alla Giudecca - i quattro mori - dove facevano anni fa il risotto con il go, una leccornia veneziana vecchio stampo (ghiozzo); la trattoria non l'ho più provata di recente, ma è ancora lì.
Posta un commento