martedì 9 settembre 2008

Turchia. La Venere di Cnido per Luciano di Samòsata.





Tramonto nel sito archeologico di Knido.


La Venere di Cnido ha fatto parte di quel gruppo di icone ideali che hanno marcato il mondo occidentale per secoli, fino al nostro recente passato. Forse oggi si perde in un evanescente ricordo, come una bisnonna di cui ci resta solo una vecchia foto.

Luciano di Samòsata il siriano (Samòsata, 120 circa – Atene, 180 circa), il viaggiatore, e infine il romano la rievoca ne I dialoghi, resuscitandola dopo i cinque secoli che già allora erano passati. Due tipi, Caricle e Callicratide, disputano tra loro: è meglio amare gli uomini o le donne? Nel corso del dibattito – c’è anche un terzo, il narratore - fanno una visita, a Cnido, alla Venere di Prassitele (Prassitele si suppone sia stato attivo tra 375 ed il 326 a.C. circa). La storia è irridente, aspra, ma anche verdeggiante e vivida, ed offre un provocante contrasto con i bruciati colori e le assenze, la solitudine delle pietre che oggi Cnido mostra.

Dopo tanto secco brulleggiare esperito nel viaggio infatti, colpisce nel racconto la verde verzura di mirti, cipressi, platani, alloro, edera, viti. E rispetto alle pietre che oggi si disfano, dorate, in polvere, colpisce la tosta dea di carneo marmo. Marmo che pare fosse spalmato di cere delicatamente colorate per simulare la pelle rosea.

Avendo girato per il portico di Sostrato, e per altri luoghi che potevano dilettarci, ci avviammo al tempio di Venere, noi due, Caricle ed io, assai volentieri, Callicratide di male gambe perché andava a vedere una femmina; e penso che avrebbe scambiato la Venere di Cnido per l'Amore di Tespe. Ed ecco verso noi dal sacro recinto spirare aure lascive; ché l'atrio non era un suolo sterile lastricato di pietre lisce, ma, secondo luogo sacro a Venere, era fertile d'ogni specie d'alberi fruttiferi, che spandendo i fronzuti rami coprivano quell'aere come d'una coltre di verzura. Specialmente verdeggiavano pieno di coccole il mirto, che presso la sua regina cresceva rigoglioso e superbo, e ciascuno degli altri alberi che hanno vanto di bellezza, i quali per vecchiaia non seccano, ma mettono nuovi rampolli, e son sempre giovani. Misti a questi v'erano altri alberi infruttiferi, ma che hanno vaghezza invece di frutto, come cipressi, e platani con le aeree cime, e l'albero di Dafne già fuggitiva di Venere e tanto schiva. Ad ogni albero s'aggrappava e aggraticciava l'edera amorosa; e le pampinose viti pendevano cariche di grappoli; ché più dilettosa è Venere insieme con Bacco, la loro dolcezza è mista, e se li dividi piacciono meno. Sotto l'ombra più fitta del boschetto sono lieti sedili per chi vuole banchettare, dove raramente va qualche persona civile, ma il popolo vi corre a folla nelle feste, e vi fa ogni sacrificio a Venere. Pigliato assai diletto di quelle piante, entrammo nel tempio. Nel mezzo sta la statua della dea di marmo pario, bellissima, splendidissima, e con la bocca mezzo aperta ad un sorriso. Tutta la sua bellezza è scoperta, non ha veste intorno, è nuda, se non che con l'una mano cerca di ricoprire il pudore. Tanto poté lo scultore con la sua arte, che la pietra così ripugnante e dura pare morbidissime carni. Sicché Caricle, come uscito fuori di sé, ad alta voce gridò: «O Marte felicissimo fra gli dei, che fosti legato per costei!». E così slanciandosi con le labbra strette, ed allungando quanto poteva il collo, la baciò. Callicratide rimase tacito, e nella sua mente ne maravigliava. Il tempio ha un altro uscio per chi vuole vedere la dea anche dalle spalle, acciocché sia ammirata tutta quanta; e facilmente si può entrare per l'altra porta, ed osservare la formosità delle parti posteriori. Noi dunque, volendo vedere tutta la dea, girammo dietro il tempietto; ed apertaci la porta da una donna che ne serbava le chiavi, rimanemmo subito abbagliati a quella bellezza. Per modo che l'ateniese che testé aveva rimirato in silenzio, come ebbe fissati gli occhi su quelle parti della dea, subito, più di Caricle impazzendo, gridò: «Oh! Che bellezza di schiena! Come quei fianchi pieni t'empirebbero le mani ad abbracciarli! Come ben si rilevano e tondeggiano le mele, non molto scarse ed attaccate all'ossa, né troppo grosse e carnose! E quelle fossette nell'una e l'altra anca sono una grazia che non si può dire; e quella coscia e quella gamba così ben tirata sino al piede, sono di eccellenti proporzioni. Così è fatto Ganimede che mescendo a Giove in cielo gli rende più dolce il nettare: ché quella Ebe, oh non vorrei io che mi porgesse da bere». Mentre come un invasato Callicratide così gridava, Caricle per il grande stupore rimase immobile, e gli si imbambolarono gli occhi per la passione. Ma dopo che cessò la prima maraviglia, vedemmo in una delle cosce una chiazza, come macchia in veste, che pareva più brutta per la candidezza del marmo. Io feci una ragionevole congettura, che la pietra fosse naturalmente così; ché anche in queste cose può la ventura; un'opera potrebb'essere di bellezza perfetta, e la fortuna ci mette una teccola. Credendo adunque che quel nero fosse un naturale neo, più io ammirava Prassitele che seppe nascondere la difformità della pietra dove meno si può biasimare. Ma la sagrestana che ci stava vicino, ci narrò una nuova ed incredibile storia. Disse adunque che ci fu un giovane di non ignobile famiglia (per quel che fece, se n'è perduto il nome), il quale, venendo spesso in questo sacro recinto, per sua mala ventura s'innamorò della dea; e passando le giornate intere nel tempio, dapprima fu creduto timorato e devoto. La mattina si levava con l'alba, e veniva qui, e la sera malvolentieri se ne tornava a casa; e tutto il giorno seduto dirimpetto la dea, teneva gli occhi fissi in lei. Faceva un continuo pissi pissi, e con certe mezze parole si lagnava sempre d'amore. Quando poi voleva per poco ingannare la sua passione, diceva un motto, pigliava una tavola, vi contava sopra quattro dadi di damma libica, e provava la sua speranza. Traeva, e guardava: se il tiro era buono, se era quello di Venere, ed ogni dado presentava una faccia diversa, egli scoccava baci, e lieto credeva otterrebbe il suo intento; ma se, come suole avvenire, traeva male sulla tavola, e i dadi facevano il peggior punto, se la pigliava con tutta Cnido, come se avesse una terribile e insanabile calamità; indi a poco ripigliava i dadi, e con un altro tratto rimediava alla prima sventura. Crescendogli sempre più questa frenesia, sopra ogni muro, sopra ogni scorza di tenero arboscello scolpiva il nome della bella Venere; Prassitele per lui era un altro Giove; e quanti begli arredi e masserizie aveva in casa tutto offriva alla dea. Infine la soverchia passione gli tolse il senno, e con l'ardire sfogò il suo desiderio. Un dì al calar del sole, senza farsi veder da nessuno, si ficcò dietro la porta, e quivi rincantucciatosi, stette senza muover fiato. Le sagrestane secondo il solito tirarono la porta di fuori, e rimase dentro il novello Anchise. Ciò che avvenne in quella nefanda notte come potrebbe io o altri narrarvelo? Degli amorosi abbracciamenti questi segni apparvero la mattina, , e la dea ha quella macchia, per mostra dell'oltraggio che le fu fatto. Il giovane poi, come narra la voce del popolo, o che si gettò da una rupe, o che si annegò in mare, scomparve, e non se ne seppe mai più novella.
Mentre la sagrestana così raccontava, Caricle interrompendo il discorso gridava: «Dunque la femmina, anche di pietra, è amata; or che sarebbe vedere animata tanta bellezza? E quella sola notte non valse lo scettro di Giove?». E Callicratide sorridendo: «Non sappiamo ancora, o Caricle - rispose - se di questi racconti ne udiremo molti altri quando saremo in Tespe. Ed ora questa Venere stessa che tu ammiri mi dà una chiara prova». «Quale?»domandò Caricle. E Callicratide: rispose e, mi parve, a proposito: «Il giovane innamorato, avendo un'intera notte di tempo per poter saziare il suo desiderio, si congiunse con la statua come si fa coi garzoni, sapendo che neppur nella femmina è migliore la parte femminile


I dialoghi e gli epigrammi , tradotti da Luigi Settembrini, ristampata dai Fratelli Melita, Genova, 1988, 2 vol., I, pp. 491-494.

Il testo citato è stato trovato su web all’indirizzo ariannaeditrice.it

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