domenica 17 gennaio 2010

SIRIA. PALMIRA. VIA COLONNATA, TEATRO, TETRAPYLON.





























L'incontro con Palmira è soffuso di un dorato, luminoso tepore che sembra venire dalle rosee pietre che ronfano come gatti che dormono con un occhio solo tanto quanto dal sole, che nell'inverno siriano non è per niente un dono scontato; quando il giorno dopo lasciamo la città, sull'oasi e sulle rovine premono offuscanti e fitte brume, umide e verdoline.

L'avvicinamento a Palmira, pur facilitato da nuove strade, non fa perdere il sentimento di attraversare un deserto prima di arrivare alle montagne che proteggono la città; abbiamo percorso dormicchianti e sognanti chilometri di steppa qua e là costellata di pastori e tende e invasa da un apparente nulla, con tutte le variazioni del sabbia e del brunodorato a volte macchiate da preziose scie di verde e da un mutevole sole.

La città è lì per una sorgente sulfurea - sacra acqua - che diventa crocevia e tappa preziosa nel deserto, all'incrocio tra Africa, Oriente Estremo (penso ai cachemire indiani e alle sete cinesi trovate nelle tombe), Mediterraneo.

Il mio primo atto rituale è l'acquisto di una scatola di datteri: una scatola grande, pesante di frutti piccoli e dalla buccia spessa, varianti dal dolcissimo fondente a una certa secchezza rugosa ma mai deludente, solo quel tanto che basta a fartene provare subito un altro. La scatola è tutta bianca, un leggero cartoncino senza una sola scritta o marca o prezzo, un vero No Logo che immagini assemblato in qualche retrobottega rilassato. Me la porterò dietro nei prossimi giorni, a consolazione dei tragitti in quel grande e vecchio pulmann che sta larghissimo a un gruppo di dieci persone e nel quale mi sto infilando così volentieri per prendermi pause meditabonde e apprezzare distanze.



Le rovine appaiono su un orizzonte rettilineo dove competono solo con una piccola cittadina marginale e con il castello arabo, e il sito non recintato si fonde con l'ambiente senza tagli o fratture o pagamenti (solo l'ingresso al tempio del sole chiede un biglietto), in un va e vieni che permette ai nomadi di piantarvi una tenda, ai turisti di girovagare e stanziarvi ad libitum e agli alberghi di crescervi in mezzo; per fortuna il più prossimo è una bella casa ottocentesca che fa solo desiderare di andarci a stare, gli altri, defilati - ne ho visti due - tentano di starsene bassi.

Commuove, mette in moto, porta verso di sè, la via colonnata, che resta, pure mutilata e frammentata, un attrattore del passo e dello sguardo formidabile. Via colonnata: asse organizzatore della città, che mette in relazione i punti cruciali ad essa interni come i templi, il foro, il ninfeo, il teatro, le vie traverse, ma anche che apre la città alla rete più grande ed esterna a cui era connessa, le vie delle spezie e della seta. Oasi, città carovaniera, punto di snodo di un traffico lungo, lunghissimo, in cui l'organizzatore era la strada, l'andare, il percorrere; strade in cui una città come Palmira fungeva da perno, e lungo le quali, lasciata la città e avventuratisi nel deserto e poi in altrove sempre più lontani, si ripetevano, rarefatti e adattati, alcuni segni: un cippo, forse un tempio, certo un caravanserraglio.

La via colonnata palmirena è particolarmente articolata, si interrompe dove c'è un edificio pubblico, fa spazio al suo fronte, si piega dove c'è una discontinuità, inglobandola con qualche accorgimento: se c'è una deviazione, uno spezzersi del rettilineo, archi trionfali, il tetrapylon correggono la direzione e riorganizzano le prospettive, mantenendo compattezza e continuità. Famosa la pianta triangolare dell'arco monumentale a sud est, che permette alla strada di piegarsi verso il tempio del sole mantenendo i due fronti dell'arco perpendicolari al tratto di strada che fronteggiano.

Ricordiamo la via colonnata di Apamea; lì grandi lastre di pietra per pavimentarla; qui solo morbida sabbia; la guida ci dice che essa è necessaria alle zampe palmate dei cammelli, al loro passo ondivago e morbido. Come sempre, asserisce e ci guarda in attesa di vedere un nostro dubbio per rimproverarlo: in lui si confondono la foga di domare un gruppo e quella di informarlo, attraverso il con - vincerlo.

Qualcuno ha detto che Palmira, con la sua esagerata ricchezza di segni - pensiamo alle mensole appoggiate alle colonne, tipiche di qui, su cui stavano a decine i personaggi storici e mitici che ne illustravano la storia - segni che moltiplicavano la ricchezza della vegetazione, miracolosa nel deserto, dei melograni, degli ulivi, delle palme, evocava, realizzava simbolicamente il giardino paradisiaco dei nomadi. A Palmira la colonna - albero con la sua testa di fronde di pietra raddoppia e riflette il boschetto di palme.




La mappa, da sacred-destinations

Qui qualche nota di Gianluigi Ciotta sull'impianto urbano di Palmira.

Foto di Nunchesto e Artemisia

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