sabato 6 settembre 2008

Grecia. Dodecaneso. Solo noi e la berta maggiore.




Procella: impetuosa tempesta, fortunale; figurativamente, sciagura. Procellarie, quel genere di uccelli il cui avvicinarsi è segno funesto di prossima tempesta.

La berta maggiore veleggiava veloce sull’arricciato mare del Dodecaneso, sposando il meltemi che soffiava di buona lena.

Uccello pelagico, ovvero uso a vivere in mare tranne che nella stagione riproduttiva, dalla fine di febbraio a ottobre. Allora cerca una fessura nelle rocce, un anfratto, e vi depone l’unico uovo del futuro pulcino che sarà curato a turno da babbo e mamma, sposi fedeli, raggiungendo sotto la coltre di soffici piume grigie un peso superiore a quello dei genitori prima di sviluppare, consumando il buon grasso accumulato, impermeabili penne e prendere il volo per tornare con loro nelle parti settentrionali del mondo. Dopo un breve periodo in cui uno dei due sta con lui, i due adulti lo lasciano tutto il giorno nel nido mentre volano sulle onde in caccia di piccoli animali marini, che pescano a poca profondità dalla superficie che esplorano instancabili; solo quando il cielo è del tutto buio – se c’è la luna ne aspettano il tramonto - tornano a casa e cercano, guidati dai flebili pigolii, la loro creatura.

A proposito del canto: pare sia come uno stridulo un gemito, un pianto di neonato; di qui le leggende che dicono che le berte sono i compagni del guerriero Diomede che ne piangono la morte e si struggono finché non vengono trasformati in uccelli da Venere.

Mentre arrancavamo sulle mosse onde con il caicco dai larghi fianchi e prendevamo intensi bagni di salati spruzzi, la berta sfrecciava sul mare con il suo elegantissimo volo, ali slanciate e puntute, circa un metro di apertura, che non si poteva fare a meno di seguire con gli occhi nel suo planare fino alle creste per poi virare con la curva dell’acqua, in piena confidenza con essa e con il meltemi. Pare che la velocità di 80km orari la raddoppi con il vento. Fotografarla non era semplice. Nunchesto ci si è provato.

Ha un becco assai adunco e strane narici accentuate e arcuate, nelle quali termina un condotto dedicato a ghiandole lacrimali specializzate, che le permettono di liberarsi dell’eccesso di salinità del sangue proprio di un uccello che vive sempre sull’acqua del mare. Condivide questa specialità con altri animali che frequentano molto l’acqua del mare e insieme sono non-pesci, come i pinguini e i coccodrilli.

Il suo volo confidente, sposato con il mare in mossa agitazione che tanto timore incute ai bipedi terrestri, lo ammirai per la prima volta nella traversata che molti anni fa ci portò alle isole Aran. Ne osservai con meraviglia le ali lievi, slanciate, puntute e la simmetrica vicinanza all’acqua in grande movimento. Più rondini che gabbiani. Poi ne vidi, nel norvegese mare di Andoya pieno di balene, le architettoniche narici, poiché uno stormo si era messo a paperelleggiare sull’acqua, accoccolato e tranquillo.

Infine ne ho apprezzato la compagnia quest’anno, sul mare greco. Noi e loro e qualche grande nave da trasporto all’orizzonte, una volta una nave da crociera. Pochi o nulli altri caicchi, o barche a vela, o motoscafi. Il meltemi teneva tutti a riva, tranne le berte e il nostro gruppo di sconsiderati italiani (questo, comunque, era il fermo pensiero del capitano turco).


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