Due parole su una panciuta pentola di ferro, che ho visto sul fuoco, a terra, al centro di un cerchio di donne e bambini, in un villaggio Himba.
Un’anziana soavemente rosso
chiaro, di bellezza conturbante e regale autorità era circondata di bambini e giovinette, riconoscibili dalle due treccine sugli occhi; queste nere - non usano ancora l'impasto di grasso, ocra e erbe profumate con cui si adornano le mamme - intente a aiutarla e osservarla, oltre che a
ripulire un tegame dalle tracce di un impasto bianco (latte e farina di mais; per gli Himba l'alimentazione è carne, spesso di capra, latte di mucca - vedi le zucche dove viene fatto inacidire ad hoc - mais).
Nella pentola, fatta come un piccolo calderone, con tre piedi, posta su un fuoco lento,
cuocevano piccoli pezzi di carne strettamente accostati – intorno, sui rami degli alberi, c’erano
grandi tranci di bestiame messi a essiccare. Ho visto versarvi parchi sorsi
di liquido – acqua forse - in un paio di riprese.
La signora testimonia della capacità
degli Himba di adottare nuove tecnologie se consone alla loro cultura; la pentola ha
radici europee ed entra in scena in Africa nel XVII secolo, poco dopo l’arrivo
in Namibia con i loro grandi greggi di bovini degli Herero, di cui gli Himba
fanno parte.
È l’antenata delle cocotte di ghisa ben vispe sui nostri fornelli, ma ha tre piedi in più che la rendono indipendente da una cucina: è fatta per essere riscaldata da focherelli creati con quel che capita in pieno viaggio con carri da pionieri, magari sotto le stelle, dove per far fuoco hai ottima cacca di mucca essiccata (o di elefante, o di kudu) o sterpi rimediati intorno. Fuoco bassissimo quindi e lungo, pochi liquidi, magari alcolici, carne di selvaggina appena catturata o essiccata e trasportabile e una verdura in qualche modo procurata, magari qualche cipolla, qualche patata. La pentola pare salisse sul carro quando era ora, ancora col cibo rimasto, per essere poi riposta sul fuoco quando si poteva, alimentandola con aggiunte di carne o verdure nuove (ovviamente c'è anche tutta una tradizionale sapienza sulle erbe selvatiche, ove reperibili).
Anche questa pentola ha alla radice gli olandesi, che nel XVII
secolo erano maestri nel farne di ferro – ancora senza i tre piedini - e le esportavano, specie in
Inghilterra, dove infine impararono a farle, ma le pentole seguitarono a chiamarsi olandesi; con il tempo acquisirono il coperchio dai bordi rialzati adatti a trattenere la brace
da poggiarvi su per avere migliore e più diffusa cottura e le zampe, tanto utili. La pentola si diffuse enormemente presso tutti i pellegrini ed esuli e colonizzatori, anche in America.
Oggi il potije – così si chiama - vive florida vita in tutta
l’Africa meridionale, e dopo che sembrava essere diventata obsoleta, è
resuscitata vispissima anche tra chi dispone
di fornelli a gas o elettrici.
Le ricette per fare i potjiekos (così si chiama il piatto ottenuto) seguono lo schema: un grasso, rosolare la carne (toglierla e poi rimetterla dopo la separata rosolatura della cipolla lo fanno i raffinati, lasciano tutto insieme i pragmatici) aggiungere poco liquido – il cibo non deve bollire, fondamentale è la funzione del vapore, del sudare – quindi strati di verdure anche varie e cuocere molto lentamente, con coperchio. Le variazioni sulla tecnica sono fondamentalmente mescolare sì/no, ovvero fondere o distinguere i sapori, e fare cotture veramente lunghe, anche di quattro ore o più, o tagliare (orrore) un po’ corto. Importante: sempre ci sono spezie; anche qui l'ondata indonesiana e poi indiana che bagnò la punta dell'Africa per poi diffondersi a tutto il meridione produce benefica i suoi duraturi effetti.
Le ricette per fare i potjiekos (così si chiama il piatto ottenuto) seguono lo schema: un grasso, rosolare la carne (toglierla e poi rimetterla dopo la separata rosolatura della cipolla lo fanno i raffinati, lasciano tutto insieme i pragmatici) aggiungere poco liquido – il cibo non deve bollire, fondamentale è la funzione del vapore, del sudare – quindi strati di verdure anche varie e cuocere molto lentamente, con coperchio. Le variazioni sulla tecnica sono fondamentalmente mescolare sì/no, ovvero fondere o distinguere i sapori, e fare cotture veramente lunghe, anche di quattro ore o più, o tagliare (orrore) un po’ corto. Importante: sempre ci sono spezie; anche qui l'ondata indonesiana e poi indiana che bagnò la punta dell'Africa per poi diffondersi a tutto il meridione produce benefica i suoi duraturi effetti.
Ci sono potjie anche di pesce,
anche tutte vegetali. Certamente il potije ricorda la
tajine; viene pure alla mente il nostro forno di campagna. Nel potije si fanno pudding. C’è pure un pane cotto e mangiato,
senza i tempi di lievitazione, non sempre disponibili restando nella
letteratura del pioniere pronto a risalire sul carro: il veld bread.
wiki/Potjiekos
wiki/dutch.oven
Un sito di appassionati: potjiekosworld
Se la volete comperare, potjiepotusa
Un po' di ricette: funkymunky.co.za
wiki/Potjiekos
wiki/dutch.oven
Un sito di appassionati: potjiekosworld
Se la volete comperare, potjiepotusa
Un po' di ricette: funkymunky.co.za
6 commenti:
dico solo grazie!!!
che gran bel post, il tuo stile di raccontarci le cose è sempre unico
Cara Artemisia.. questa volta siamo allineate!!!
grazie a tutti della partecipazione!
Pinguil? (questa volta allineate? in genere sfasate? :) )
@Artemisia: io in genere sempre mooolto sfasata..
L'allineamento era riferito alla meta del viaggio, sono da poco rientrata dalla Namibia
che bello. condivisione.
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