Costeggiando le isole del Dodecaneso in estate non si può non vederne l’arida aridità deserta, l’assenza spietata di alberi, arbusti, cespugli. E insieme la bellezza florida degli olivi quando viene loro permesso dalla coltivazione e dal suolo, di crescere; almeno, nella vulcanica Nissiros. Alberi, dove siete andati? Via per sempre?
Uno scritto di Cinzia Bearzot, docente di storia greca, Uomo e ambiente nel mondo antico, in rivista.ssef.it ci dice qualcosa sul tema. Come si rappresentarono i Greci, e poi i Romani dopo di loro la natura? Quale ruolo simbolico le diedero?
Concentriamoci, perché siamo talmente loro eredi che potremmo non cogliere l'aspetto specifico di questo modo di immaginare il mondo. Si trattò di culture fortemente antropocentriche, dove la natura era a disposizione dell’uomo, offerta alle trasformazioni e all’uso che questi voleva farne, senza limiti se non quelli delle tecnologie.
La selva fu vista come selvatica e selvaggia, estranea ed incolta, non-luogo. Pare che già nella visione di Omero tale fosse il modo in cui venivano visti i grandi alberi, le foreste.
Alberi e foreste che assai probabilmente popolavano le oggi aride terre, ma che caddero per le molte navi, per le coltivazioni che si estendevano, per gli allevamenti, per le devastanti guerre. Senza vedere il costo che ciò comportava: chi cerca nella letteratura greca una traccia di questo sentimento, non lo trova. Caddero per sempre, per via dei dilavamenti successivi del suolo, per la perdita di fertile humus.
Le selve furono anche luogo della divinità, del sacro, dell’apparizione del dio. Un po’ di ambivalenza, per Bacco! Ritorniamo a ciò che dice Luciano del luogo sacro a Venere a Cnido. Ma ciò non bastò a salvarle.
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