domenica 22 aprile 2007

VENEZIA. BURANO.



































da Artemisia Comina

Per i turisti e i piccioni ho la stessa simpatia schifata. Non condivido l’odio che suscitano, anzi, specie i piccioni mi fanno sempre affettuosamente sorridere nel loro ostinarsi a camminarti tra i piedi sulle inadeguate zampette benché abbiano facoltà di volo, con quelle corsettine sguince con cui cercano di salvare la pelle senza mollare il campo. Brutti spesso allo stesso modo e per lo stesso motivo, turisti e piccioni: molto cibo, vita non troppo pericolosa e quindi lunga. Per questo li vedi spesso alquanto acciaccati, gli uni e gli altri, con le penne sciupate, ma vivi e ingombranti.
Eppure, pensavo, senza turisti Burano forse non esisterebbe più. Si abbattono sull’isola come un’onda che si ritira alla sera, lasciandola segnata ma viva, con i buranelli che riemergono dalla folla per sciamare brevemente per le calli per presto rifluire a loro volta nelle case riconquistate.

Poiché era una giornata di luce bellissima, abbiamo pensato di inseguirla sull’acqua, prendendo un battello per le isole. Partenza dalle Fondamenta Nuove, passando davanti alla facciata immensa del Gesù, rilucente di luce. Breve immersione nell’interno, e finalmente ci diciamo la verità. Quel paramento di marmi intarsiati che riproducono un broccato bianco e grigio non ci piace: è funesto.

Sarebbe ora di pranzo. Ci fermiamo da Algiubagiò, un bar che offre anche piatti caldi con vista sul cimitero di san Michele, e dà sulle acque sempre movimentate dal traffico dei vaporini, ma soprattutto con il bancone fatto dallo stesso fabbro che ha fatto il nostro tavolo veneziano, con lo stesso rame inverdito con misteriosi procedimenti di cui non rivela l’alchimia, e di cui tutti per ciò sospettiamo la naturale natura. Chiediamo un panino con la soppressa. Siamo reduci da Verona, dove di panini con soppressa ne abbiamo mangiati di magnifici, con quella fresca, morbida, cedevole, agliata. Qui si tratta di un normale salame appena morbido, e basta. Vabbe’.

Sul vaporino si viaggia in compagnia dei barconi da lavoro, dei motoscafi, dei sandali portati da remiganti di ogni sesso ed età. Eccone uno con due fanciulle ancora un po’ incerte nella voga veneta, che incrociamo proprio davanti a una delle mie case preferite. E’ sul canale di Mazzorbo, dalla parte dove si accede solo con la barca. Si tratta chiaramente di una casa di pescatori, con tutti gli attrezzi in parata davanti. Ogni volta che la vedo, gliela rubo. Scendiamo a Mazzorbo e andiamo a Burano facendo il ponte. A Mazzorbo cercavamo La Trattoria della Maddalena per fermarci a cena, ma è chiusa di giovedì. Cercheremo a Burano.

Intanto si fa un giro. Ci accolgono i lillà e la linaria cimbalaria, esotica piantina scappata così bene dai giardini che oramai è selvatica e prolifica ed orla ogni nostro vecchio muro che offra fessure.
Anche qui, come a Venezia, i passi dei turisti seguono un vincolato e circoscritto percorso. Solo il canale centrale è fitto di negozi di maschere, pizzi, biscotti, caccavelle, di bar che danno anche qualche piatto caldo, di ristoranti dall’aria sinistra. Baldassarre Galluppi, gloria buranella, sembra passeggiare in piazza, proprio davanti al Museo del Merletto, di cui consiglio la visita dopo essersi sbarazzate di un eventuale uomo che vi accompagni, poiché è luogo straziantemente femminile, testimone di femminili operosità isolane promosse dalla solita nobildonna benefica, tenuto per fermo che ogni attività in cui si sospetti intervento della mente resta maschile. Lo sapevate che il fratello di Tiziano disegnò magnifici schemi di merletti? Da qualche parte ho un libro che lo testimonia e li riproduce.

Cerchiamo il vecchio Da Romano, in cui andammo tanti anni fa, in un giorno invernale. Chiuso. Abbiamo ancora un indirizzo: Al Gatto Nero. Telefoniamo e abbiamo la seguente risposta: vogliamo cenare? Mah, sì, forse è possibile. A che ora? Alle sette e mezza perché vogliamo tornare a Venezia? Ah, be’, allora sì, sicuramente. Bene, ci aspettano.
Che pensare? Dopo le sette e mezza saranno con il ristorante pieno, ma se andiamo presto, ci troveranno un posto. Tutti contenti del trovato ricovero, passeggiamo per la colorata isola. Rifletto sui dilemmi dei buranelli: quando i fili elettrici passano su una tubatura posta tra due case di diverso colore, come tingerli? Con il colore di destra, o quello di sinistra? Di tali questioni ce n’è una quantità. Inoltre, sorge un sospetto. Che le padrone di casa scelgano fiori e biancheria da stendere in tinta con le pareti della casa.

Appena si fanno le sei, ci coglie una strana sensazione. Di botto c’è silenzio, Burano si svuota. I negozi, i bar, i ristoranti tolgono dalla calle ogni ingombro, banchetto, protesi; si ritirano su se stessi come paguri che rientrano nella conchiglia. Tutto sparisce. Le facce intorno si riuniscono in una omogeneità familiare, le voci risuonano uguali. Siamo seduti a un bar – pessimo, non ci chiedete come si chiama – e in breve una dopo l’altra arrivano quattro buranelle che si siedono per un bicchiere. Risuona un curioso eloquio: Gavio zà bevusto? Avete già bevuto? Un veneziano sui generis ancora attecchisce e prospera, endemico, sull’isola. Frotte di vecchi, ciacolanti signori si infilano dentro il bar, certamente per un’ombra. Quando entro per pagare, vedo tracce di un vecchio locale sulle pareti e nei legni, oramai soppresse da cartelli che promettono sarde in saor, polente con seppie, spaghetti alla bolognese.
Nunchesto si è azzardato a chiedere uno spritz che dichiara nefando; io chiedo un succo di pomodoro. No, non c’è, ma se voglio succo di aloe con ananas, quello sì. (??!!). Lo prendo. Buono, così come apprezzo le patatine fritte freschissime, dono della voracità delle folle diurne. Cala la sera, si intravedono la chiesa e il campanile di Torcello attraverso le paline.

Nel canale passa una giovane coppia su un barchino, guardatissima dalle signore Bevusto. Ecco, questo “guardatissima” esprime tutta la differenza che s’è consumata tra le cinque e le sei. Prima il nugolo delle facce era indistinto, evanescente, anonimo; non erano vere facce. Appena l’onda dei turisti si ritrae, tutti riconquistiamo una faccia. Ci guardiamo. Siamo curiosi, molto curiosi, l’uno dell’atro. Le persone tornano ad avere un’identità un peso, una consistenza. Torna a valere il vecchio criterio lo conosco/non lo conosco. Chi è quella coppia? Con quella coppia condivideremo un destino. Fattasi l’ora giusta, eccoci dal Gatto Nero. E’ sulle deserte fondamenta del canale parallelo a quello centrale. Incrociamo un giovane cameriere che corre come una lepre stacchettando con le nere scarpe da lavoro nella direzione opposta. Ipotizzeremo poi che andava ad avvertire mamma e fidanzata che sarebbe tornato più tardi del previsto: c’erano clienti. Entriamo in un ampia sala da banchetti vuota. Fiori sui tavoli tutti apparecchiati, luci. Siamo i primi? Dopo poco entra pure la giovane coppia del barchino, due tedeschi. Saremo in quattro per il resto della serata. Si fa luce: alle sette e mezza ci davano da mangiare perché così non dovevano trattenere troppo a lungo il personale, e non per far largo a successive folle. Noi ordiniamo pesci, tutti freschissimi. Canocie, latte di seppia, folpetti, baccalà mantecato, gamberi e un incongruo pesce affumicato. Poi un risotto di pesce senza identità, con polpa di pesce bianco che lo rendeva cremoso e gamberi a rondelle a “tagliarlo”. Quindi Nunchesto anguilla alla griglia, io seppioline. Anche questi, freschissimi; buon pesce, niente cuoco. In verità, un piccolo uomo in veste di cuoco ha fatto qualche impettita sortita dalla cucina tutto biancovestito; rimproverandomi perché fotografavo: non importa che sia bello, basta che sia buono. Voilà uno sprazzo di un noto moralismo sedicente gastronomico, che ogni tanto serpeggia tra burberi veri uomini dediti alla cucina, che si affrettano, ceduto al gusto del palato, a negare quello degli occhi, per paura che troppa grazia possa turbare. Soprattutto, che si introducano criteri di cui non capiscono un accidenti, minando le loro supponenze. Non vi dico quanto li disapprovo.

La tedesca coppia chiede carpaccio di manzo. Nunchesto osserva che non solo hanno sbagliato ristorante, ma parte del mondo. Infine lui cede all’octopus e a vari altri piatti che arrivano numerosi, lei, restia, ottiene una vegetable soup.

Uscendo dal ristorante, passiamo davanti alla cucina. Insieme, al tavolo, chiacchierando tranquille e sorridenti, con l’aria di avere tutto l’agio e il tempo del mondo, nella loro raccolta e riconquistata quiete isolana, siedono alcune donne che sgusciano pile immense di gamberi lessi. Domani verranno buttati in gola alle tornate folle.

Quando lasciamo l’isola, ci immergiamo nel buio della laguna punteggiata dalle luci di Torcello a distanza, salendo su un vaporetto deserto e surreale, che ci ricorda i traghetti dell’estremo nord con le sue rarefazioni. Ci sono solo un vigilantes che va al lavoro in città e una giapponese troppo piccola perché possiate vederla, nella foto, al primo colpo. Alla faccia di chi si lagna, perfino chi non c’è mai stato lo ripete obbediente, che Venezia è piegata dalla folla. Basta fare un passo in là, e non c’è più nessuno. Per inciso: la giapponese ha corso il rischio di sbagliarsi e scendere in una Murano notturna. L’avremmo persa per sempre.

Algiubagiò
Cannaregio, 5039 Fondamente Nuove
tel. 041 5236084

Al Gatto Nero
Burano - Via Giudecca, 88
te. 041 730120