mercoledì 30 marzo 2011

COPENHAGEN. GERANIUM2 prima puntata


Quando siamo stati nella nevosa Copenhagen subito dopo Natale, abbiamo cercato un ristorante che rappresentasse la nuova cucina del Nord, quella dei giovani cuochi riuniti a testimoniare l'alta qualità e specificità dei loro prodotti e della loro cultura, dei loro pesci guizzanti in acque gelide, dei loro muschi e dei loro tuberi. Siamo per ciò arrivati da Geranium, al limitare di un parco innevato, salendo fin nel cuore della notte in cima a un palazzo aderente allo stadio, dopo una ricerca che stava per farci smarrire entro silenti quartieri e bianche fratte.

Entro un molto elegante refettorio bianco e grigio ci accolgono dei camerieri vestiti da frati, che officeranno con cortesia il rito del porgerci in sequenza piattini fioriti ed erbosi, zolle di bosco che man mano che arrivano sul tavolo vengono inondate da cucchiaiate di creme tipedide, da succhi caldi versati da bricchi amorevolmente portati da queste schiere di Ebe. Abbiamo scelto il Green Menu, tutto vegetale.


Mentre ancora siamo in attesa del tavolo due piccole palline lucenti di un vivo arancione, fragili come vetro soffiato, ci vengono porte su un levigato sasso bianco; aprendole (non posso ingoiare senza guardare: faccio come Pandora, come Psiche che non potè resistere ad aprire la scatola che riportava dagli Inferi per ordine di Venere) si rivela una goccia di crema arancione e un dischetto innocente e puro di carota. Intanto vado chiedendomi quale gioco infantile mi richiamino insistentemente alla mente, senza che riesca a riacchiapparne il ricordo. Infilate in bocca, risuonano di consistenze vritree che minacciano di lacerarti dissolvendosi subito, di molli rassicurazioni vellutate e dell'umido croccante della carota, mentre l'arancione, che aveva squillato così alto tra tutti quei bianchi e grigi, non si dimentica e partecipa al gusto.

Arrivano poi due bastoncini rosso rubino scavati in una rapa, cesellati da Fabergé e che avrei volentieri appeso alle orecchie, adorni di foglioline rosse e dischetti sia della loro stessa polpa che di incognito bianco, con un esplosivo e liscio sapore di rapa.

Terzo amuse bouche, un rametto sottile come un'ostia croccante, una sorta di spettro di grissino, cosparso di semi aromatici e accompagnato da una soffice goccia di crema bianca di cui mi pare di ricordare un che di agliato - incoronata di foglioline così piccine che certo sono state raccolte dalle formiche o dai maggolini - poggiata su un sasso di ceramica.

Già mi diverto assai e guardo intorno i candori e i rigori dell'arredo totalmente Copenhagen, di lusso ascetico; siamo all'ultimo piano, l'ottavo, del molto alto edificio che dà su un parco innevato. Tra noi e il vasto buio interrotto dalla vivida luce di un bianco campo lontano su cui giocano piccolissimi giocatori di (suppongo) hockey, una grande vetrata e un fuoco che arde dentro una vetrina, una sorta di fiammeggiante pesce in acquario che rallegra chi aspetta di andare a tavola mentre spilluzzica gioielli di verdura.

Il tavolo è un'isola candida con un minimo arredo.

Di sguincio vediamo la grande vetrata luminosa che divide la sala dalla cucina, apparentemente tutta a vista, candida e pura come la cucina dei beati in Paradiso.


Grandi cuoconi bianchi e plissettati sono al lavoro in atteggiamento di orafo o orologiaio, chini sui piatti a disseminar minuzie senza che un fumo, una fiamma, un grido, un gestaccio, un risuonar di padelle, un dito leccato, una macchia turbino la loro concentrazione marzialmente angelica. Ciò - lo confesso - mi ha fatto supporre una retrocucina, un retroscena dove il sangue scorresse e il fuoco ardesse, nascosto alla vista; ma non posso dire di averne avuta prova alcuna.

Nel primo piatto che ci portano si riuniscono a suonare la gamma del verde tenero il cetriolo, il latte di pecora, l'aneto, il rafano. Sappiate che due su tre il piatto che fotografo era di verdure a temperatura naturale, mentre la scodella era calda. E che poi si avvicinava felpato un frate munito di pentolino con beccuccio, o di vasetto e cucchiaio che versava sul piccolo paesaggio che avevate nel piatto una crema o un liquido che arpeggiavano tutti i tipi di caldo.


Fiori di porro in conserva, cavolo, erbe.

Sedano, sedano rapa, mele, segale.

Cereali in due modi. L'unico pane che ci sia stato portato, sotto forma di consistenti mattonelline calde. Insieme con un burro divino, spumoso, leggermente montato.


I mattoncini e il burro accompagnavano un piatto di topinambur, verbena, porro.



Funghi conservati, funghi selvatici, castagne.

Patate arrosto e germogli di piselli.


Questo è l'unico piatto che non era nel menu. L'unico caldo, e l'unico senza forte personalità e sapori. Forse in prova. Misterioso negli ingredienti.


La cena non finisce qui, ma il post sì. per non farla troppo lunga, ho diviso in due la visita a Geranium.

Una piccola nota introduttiva su Geranium2 da qui.
The celebrated Rasmus Kofoed was voted the best chef in the world in 2011 by Bocuse D'Or, from the Michelin starred Geranium (2007-09), re-opened in 2010 as Geranium2, featuring their own style of organic gastronomy. Rasmus Kofoed won gold in the 2010 Bocuse D'Or Europe - EM for chefs. He is one of Denmark's top chefs, having won bronze Bocuse D'Or in 2005, silver in 2007 and gold in 2011. His cuisine is both organic and biodynamic and the restaurant will be situated in the district of Østerbro with an incredible view of the park from the eighth floor. Geranium2 received a Michelin rising star in 2011.

3 commenti:

isolina ha detto...

quasi troppo? Intimidente?

artemisia comina ha detto...

no, per niente. bastava sentirsi pecora o capra, o fata o elfo.

isolina ha detto...

Eggià, sto per capra (nella prossima vita faccio la capra o la capraia)

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