martedì 24 aprile 2007

EMILIA ROMAGNA. VALLI DI OSTELLATO. LOCANDA LA TAMERICE. SERA


























Da Artemisia Comina

Le valli di Comacchio: mai viste. Il delta del Po: una lontana visita con troppa calura, di cui non ricordo nulla se non quella e dei bocconi di rane fritte insopportabilmente pieni di penetranti ossicini di cui non sapevo più che fare. Vicino a Goro.

Ecco che torno da quelle parti con una vaga attesa di locanda, di tamerici, di acque lisce e piene di erbe palustri, di cibi con erbe aromatiche. Alla fine di un lungo stradone dritto, aguzzando la vista verso cartelli che mandano verso apparenti nulla piatti, infiliamo una strada che, dopo un villaggio turistico con il quale non vogliamo avere nulla a che fare e che quindi decidiamo non essere affatto il luogo della Locanda, diventa sempre più stretta e sterrata, filando tra valli d’acqua, qualche roulotte, famigliole, biciclette, e sì, anche tamerici perfino fiorite. Quando oramai appare chiaro che potremmo finire in mare, chiediamo e ci viene detto inesorabilmente che la Locanda è nel villaggio.

Tornati alla realtà e sui nostri passi, vediamo infine una piccola, bassa casa rosa davanti alla quale ci sono una imponente cuoca avviluppata in un grembiule sghembo e un ragazzone abbronzato dai ricci fitti, molto simile a Igles Corelli, il cuoco per i quale siamo arrivati fin qui. Il ragazzone si offre di portarci la valigia. Nunchesto, che ha passeggiato sotto il novello sole cocente per tutta la mattina veneziana, si rifugia in stanza speranzoso di risorgere per la cena.

Io vado fuori in cerca delle valli e dell’ultima luce. I desiderati specchi d’acqua sono a un passo e nel più prossimo due cigni stanno dedicandosi a varie simmetrie. Il temuto villaggio è alquanto tranquillo e prossimo al sonno, il ristorante della Locanda va accendendo molto suggestivamente le sue luci. Promette bene.

Saremo in pochi questa sera. Pare invece che domani il locale sarà pieno. Pochi, dicevo; quanto avrebbe potuto tradursi in un clima meno festoso, più dimesso, diventa invece, grazie alla capacità del personale di sala, privilegio. Sono in tre: una sommelier e un cameriere entrambi di grande garbo e l’apprendista speranzoso e timido, colmo di repressi slanci, nelle vesti di una giovinetta allampanata e bionda, che si aggira ai margini per poi avvicinarsi con brevi voli impacciati e apprensivi a depositare sul tavolo con le dita contratte esplosivi piatti e posate. Invitata a scambiare due parole, subito confida, riversando l’onda di un cuore colmo, che sta finendo la scuola alberghiera, che questa è una grande esperienza, che spera – si illumina - sia seguita da un’altra, a Riccione, a Rimini. Riccione e Rimini come confini e vertice sommo di un mondo tutto.

Insomma, sommelier e cameriere diffondono, soffermandosi a parlare accompagnando piatti e vini, un clima di cordialità non confidenziale che incoroniamo di allori. L’italico personale di sala infatti sovente pecca, haimé anche ai supposti vertici, per un difetto che può mandare a gambe all’aria gli sforzi della più dedita cucina: la confidenza non cordiale. La confidenza finta, perché tra estranei non può che essere tale, mentre la cordialità può essere vera anche tra quelli. La tensione conflittuale che c’è tra il ruolo del servitore e quello del servito, in genere così ben risolta dalla ritualità francese, manca in Italia di codici altrettanto consolidati e tradizionali, e quando si perde il clima da trattoria che ci appartiene di più per avanzare verso il ristorante, il rapporto traballa. Esagerati cachinni e inchini fanno trasparire aggressività imbarazzanti, come improvvise confidenze e battute. Alla Locanda hanno trovato una speciale alchimia, che non è la danza classica di Francia né la scompostezza italica, ma qualcosa di diverso e particolarmente gradevole.

Cordialità e luci. Il ristorante è perfetto anche per quelle. Finalmente non è né obitorio, omogeneamente rilucente di un diffuso biancore che non dà all’occhio nessun ricovero e sosta, né interno di bara, ove la luce via via declinando e mancando costringe lo sguardo a inseguire gli ultimi bagliori, finché rassegnato non cede al buio e buonanotte. Si potrebbe dire che si dimenticano i pur molto colorati muri e ci si sente accolti e ricoverati in angoli luminosi.
Una finestra lunga e bassa fa intravedere un certo indaffararsi tranquillo e in alcuni momenti anche ridente in cucina, con via vai di giovani sfoggianti bandane e concentrate fanciulle incappucciate di bianco.

Il menu? Eccoci.
Semplice, senza fastidiosi e narcisisti effetti speciali, netto, elegante, garbato, lieve. Forse soprattutto equilibrato e lieve: ho potuto apprezzare e distinguere agevolmente il sapore anche dell’ultima cialda che accompagnava il gelato di gorgonzola.

Dunque dunque… cestino del pane: integrale, al lievito madre, al miele, streghette, gnocco fritto, grissini piccanti e non, piadina. Come resistere allo gnocco? Come alle croccanti e insieme aeree streghette? Come ai filiformi grissini?

Bicchierino con gelatina di pomodoro, mousse di melanzane affumicate, intrigante sapore, gelato di mozzarella e basilico fritto.

Insalata tiepida di moriglione. Il piatto che ho preferito, chi l’avrebbe mai detto, per la perfetta cottura della seducente carne. Esperienza felice e diretta della fama di un cuoco apprezzato per la selvaggina da piuma. Sospiro pensando a quant’è bello il moriglione, brunodorato il capo, nero il petto, argenteo il resto. Il moriglione poggiava su un’insalatina all’aceto balsamico con scaglie di meluccia campanina selvatica, candita.

Dopodichè, Nuche risotto con selvaggina da piuma (fischione, folaga, germano reale) che apprezza assai, io raviolo con uovo crudo e funghi selvatici. Il freddo dell'uovo, che tuttavia mi consola con il suo diffondersi arancione, mi distrae un po' dal sapore del piatto.
Haimé, anche il fischione è quanto mai bello, capo brunodorato un po’ più cupo del moriglione, petto rosa, e il resto bianchi e grigi quanto mai ben concertati. La folaga la conosco bene, tutta nera con la dura mascherina bianca, e meno male che i pescatori del mio lago la pensano pessima, così nidifica e prospera; sorpresa di vederla qui dentro un piatto. Il germano reale, chi non sa chi è?

Quindi, lui involtini di petto di germano reale, salsa di sambuco, mousse di zucca violina, composta di cotogne. E' di nuovo felice. Io guancia di mora romagnola con crema di patate di Avezzano. Il sapore della guancia è così morbido e lieve da essere quasi sfuggente, lo inseguo boccone dopo boccone.. ciò che si presenta con corposità sapida e molto finemente vellutata è la crema di patate. Accidenti alle patate - tra parentesi, una delle poche cose "importate" della cena, che io sappia - accidenti, è così difficile trovare al mercato un venditore che ne sappia qualcosa! Invidia per la dispensa piena di patate di Avezzano. Della mora romagnola, un bel maialone dalla livrea scura, sono andata a vedere le foto e ho appreso con preoccupazione che è a rischio di estinzione. La zucca violina mi ha evocato la butternut, anch'essa a forma di viola, ma sospetto che questa abbia buccia sottile, la violina rugosa. Comunque, la violina è qui, di Mezzano, e pare ci facciano anche feste e fiere.

Lui bigné fritti caramellati con salsa al mandarino, io gelato di gorgonzola con zuppa di pere al porto e miele, e anelli di cialde; cialde varie e buonissime, da sgranocchiare teneramente una per una.

Poscia bicchierini di spuma, gelatina, granita di fragole. Tiè, faccio una critica, per farvi credere tutto il resto: la granita era un po' dura, non abbastanza sgranata, il che la rendeva eccessivamente gelida.

E con il caffè Lelli, varia dolcetteria.

Bere? Il Sangiovese Superiore Riserva 2003 Drei Donà Pruno, Tenuta La Palazza; e il Pignoletto Passito Colline di Oliveto Bonfiglio, 2001. Su entrambi la conversazione tra Nunchesto e la sommelier è stata esaustiva e soddisfacente, perfino io ho capito qualcosa. La sommelier, con accento e occhi sardi, ci diceva come le sue scelte non comportino vini con qualità troppo intense, che rischierebbero di confliggere con le tenuità e variegature corelliane.

Una volta in camera, sensazione di leggerezza, quasi un certo appetito. Avessi infilato in tasca quei dorati panini al miele che non avevo osato assaggiare, dopo aver divorato con gusto mezzo cestino del pane, timorosa di disturbare la cena, sarebbe venuto il loro turno. La prossima volta lo tengo a mente. Mi faccio la mappatella.

Involtini di petto di germano e bigné fritti pare facciano parte della storia di Igles Corelli e del famoso Trigabolo di Argenta, di cui Corelli fu chef, ristorante attivo negli anni ’80 e rappresentativo di aperture innovative nella ristorazione italiana.

Per dire, il famoso "territorio" sembra che in buona parte fu inventato lì. Meritevole e innovativo allora, e tuttora di buona eredità. Se non che, adesso suscita anche voglie omicide (spiedo? olio bollente? graticola?) verso gli infiniti cheffi e cheffetti che ancora una volta te lo propinano ripetendo, lo sguardo vuoto, la tiritera territorio qua territorio là, impiattando (ah, orrendo verbo) e encomiando quanto questo o quel cibo fanno nonosochè "al palato" (e la lingua? e l'occhio? e il cuore? e il trascurato cervello?).

La ricetta dei bigné potete reperirla su web.

327€ il conto totale, per due; includetevi 80€ per la stanza e 30€ per la colazione. Si può andare, senz'altro.

Locanda della Tamerice
Via Argine Mezzano, 2
Ostellato, Ferrara
Tel. 053368095
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