martedì 22 marzo 2011

ROMA. MONTEVERDE. OSTERIA DI MONTEVERDE


L’assetto viario del collinoso Monteverde Vecchio e del contiguo, avvallato Monteverde Nuovo fu deciso da un piano regolatore del 1909. Mai lo avresti detto mentre cercavi via Cartoni ai confini tra i due, infilandoti in strette viuzze tortuose incrostate di macchine in sosta più simili al letto di un capriccioso ruscello che a una strada di città, sgusciando tra palazzine affastellate e piantate a terra come funghi tutt’altro che perpendicolari e disposti a starsene in linea retta. Se mai ci fu bisogno di prova della speculazione cui collaborarono i palazzinari romani floridamente attivi fino agli anni settanta del secolo scorso, per i quali le parole marciapiede, giardino, piazza non hanno avuto senso alcuno, eccone un’altra.

Il quartiere si chiamerebbe in realtà Gianicolense, e si chiude intorno all’ex Ospedale del Littorio, oggi San Camillo, mentre il toponimo Monteverde che tutti usiamo ha origine persa nel tempo e potrebbe risalire ai tufi verdastri che venivano estratti da antiche cave di tufo. I romani, sempre per via del colore del tufo, ma vedendolo più prezioso e dorato, la chiamavano Mons Aureus.

E pensare che dov’è Monteverde Nuovo c’era un fosso, oggi interrato, chiamato quanto mai pittorescamente Tiradiavoli, forse a ricordo di ribaldi briganti appostati tra fronde di centenari alberi all’ingresso della città per scannare improvvidi viandanti tra gli idilli di una campagna che è rimasta lì, per essere poi schiantata, fino al dopoguerra.

C’era pure una settecentesca villa, villa Baldini, che perso il suo panoramico “al fresco”, sommersa dalle case, è oggi piegata a fare la scuola elementare Oberdan, e con ciò percorsa da strilli di bimbi, mugugni di maestre e crucci di madri che ne ignorano la perduta grazia, mentre dello scempiato parco, trattato come vuoto da riempire di cementi affastellati, resta un residuo in forma di giardino pubblico, speriamo goduto da cani, barboni e vecchie signore. Pare anche che ci siano ancora bellissimi villini di inizio novecento, tutti con giardino privato, che non ho visto, e le Case Popolari di via di Donna Olimpia per gli infelici sfollati del Rione Borgo, soprannominate sarcasticamente dagli inquilini "i grattacieli". L'edilizia successiva, quella che incombeva su di noi e dentro un vano della quale sta l'osteria che abbiamo inseguito fin qui, sarà invece borghese e di cattiva qualità.

Osteria di Monteverde, scanso equivoci. Una grande stanza senza bellurie, essenziali tavoli e cucina a quasi vista, e i due baldi giovani che la curano in attenta veglia della tua accoglienza e del tuo benessere.

Osteria appena nata e già speranza dei golosi della città, con mire di buona cucina e di uscire tra qualche tempo di qui per farsi strada verso il centro della città, oggi prudentemente aggirato. I piatti romani sono in effetti per me i meno riusciti (carbonara e amatriciana buone sì, ma troppo liquefatte, dove le cremosità hanno fatto perdere le consistenze dei caci, delle uova, dei sughi, del pepe per diventare velature un po' anodine cui sopravvive solo il croccante guanciale).

Non mi pronuncio che con esitazione sui paccheri alla vignarola che ho solo visto (e quello che se li mangiava era contento), ma anche lì mi pareva troppa la fluidità e dispersione di fave, mentre il pur non assaggiato baccalà arrosto con patate e pecorino riluceva di una certa bellezza golosa e le animelle glassate con purè di patate e cipollotto erano ottime, come pure il millefoglie con spuma di pistacchi; mi veniva detto altrettanto del tiramisù.

Pani e focacce
fatti in casa e squisiti (e non è poco), interessante la presenza cospicua di piatti vegetali, per esempio polpette di broccoletti con fagioli cannellini (non assaggiate da alcuno). Carta dei vini con scelta attenta a non sforare da prezzi contenuti e insieme interessante. Nunchesto e Augusto consoni puntano su un ottimo piementese. Prezzi ottimi, ovvero non solo con un buon rapporto con la qualità, ma anche contenuti in assoluto, da poterci andare senza lacrime.

Aggiungo che se non ho allucinato, quelle animelle che a noi erano state servite con creste e garbo di aggiustamenti nel piatto, a certi stazzuti giovini poi giunti per riempire una tavolata vociante come a osteria conviene, sono state portate in mucchi cospicui, con tutt'altro tipo di estetica, e mi è parsa, se c'è stata, mossa opportuna. Quanto al vociare, se l'osteria è piena, come penso gli capiti spesso, è davvero una bella musica, e non è luogo da intime conversazioni, ma se una domenica sera volete ricovero quando moltre altre serrande si abbassano, ve ne darà.

Osteria di Monteverde

PS: Fabio Tenderini, uno dei due soci, ha fatto la sua "scuola" di ristoratore nel ristorante Ditirambo, centralissimo, che è stato a lungo un buon riferimento nella terribile zona di Campo dei Fiori e quindi di tutti noi che abitiamo non lontano; un giorno però ci ha funestato con cibi tanto pessimi che protestammo arcigni con il gentile oste, che ci fece capire scusandosi un po' che ai palati esteri fittamente presenti ciò che per noi gridava vendetta andava benone. Speriamo vivamente che Fabio non cada mai nelle tentazioni offerte da una città come Roma. Roberto Campitelli, il cuoco, ha pure lavorato dal Ditirambo, ma anche in molti altri posti interessanti, tra cui Glass.

4 commenti:

MarinaV ha detto...

L'amatriciana e la carbonara con le mezze maniche mi lasciano perplessa.
Che fine hanno fatto spaghetti e bucatini?
O è per aiutare gli stranieri che non sanno arrotolarli correttamente intorno alla forchetta?
O per evitare che chiacchierando si schizzino di sugo i baveri delle giacche?

isolina ha detto...

AH!! Le animelle!!

artemisia comina ha detto...

marina, sarebbero bucatini, certo. ma i rigatoni romanissimi stanno invadendo il campo, specie dopo che Arcangelo li ha sacralizzati (debbo decidermi a dire delle mia visite) vedi qui:
http://www.scattidigusto.it/2010/01/14/rigatoni-spaghettoni-e-trippa-alla-maniera-dellarcangelo/

artemisia comina ha detto...

isa, ottime. altro indirizzo.

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